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Una storia dentro l’altra e il viaggio verso la morte:
dalla Spagna all’Italia meridionale con Potocki e la sua cabala

Quando nel 1805 il polacco Jan Potocki cominciò a scrivere il Manoscritto trovato a Saragozza, già esistevano da lungo tempo il Decameron e le Mille e una notte che, da parti diverse del mondo, utilizzavano la fiaba per raccontare un’apparente gioia di vivere che nascondeva le suggestioni dell’incombere della morte. Potocki usò il contenitore già esistente componendo il racconto di sessantasei giornate in cui Alfonso van Worden, ufficiale vallone al servizio di Re Carlo, decidendo di attraversare l’altopiano delle Murge per raggiungere il reggimento a Napoli, si dispone all’incontro con fantasmi, demoni, apparizioni notturne e personaggi vari ognuno dei quali ha trame da tessere e storie da raccontare. All’interno di tali storie si presentano altri personaggi che a loro volta raccontano. Finché l’incontro con il demone Belial indirizza la storia verso la conclusione più logica e meno rassicurante: la vendita dell’anima e la destinazione ultima della morte. Quando poi Alfonso si risveglia e apprende di essere mancato all’appello soltanto un giorno e una notte, non potrà comunque rassicurarsi di niente.

Ha avuto un bel coraggio Alberto Rondalli, già autore de Il derviscio, a mettere mano al complesso romanzo di Potocki che, per quanto le giornate siano state ridotte da sessantasei a dieci, resta comunque quello che si può definire un osso duro per eventuali riduttori. E lo era stato anche per il polacco Wojciech Has, che nel 1965 ne aveva realizzata la prima versione cinematografica assai diversa da questa di Rondalli. Ma ugualmente misteriosa e affascinante a testimonianza del fatto che il romanzo consente letture multiple e molteplicità di interpretazioni. Ed esiste persino la possibilità che ognuna sia giusta a modo suo. Così come per Decameron e Mille e una notte, non è un caso se qualunque edizione cinematografica si sia limitata a qualche racconto, non certo all’interezza. Ma Rondalli, che evidentemente è anche studioso e appassionato oltre che illustratore, ha tenuto conto della partenza e dell’arrivo stando ben attento a dare un’idea precisa di quanto lo sviluppo fosse strettamente connesso con la complessità dei racconti, con il loro accavallarsi, con il loro andamento che potremmo definire a scatole cinesi. E ha dato al film un titolo che di per sé rappresenta una traccia: Agadah ha il significato di “narrare” in linguaggio cabalistico. Si parlerà quindi di simboli, di misteri, di occulto e di quanto tutto questo abbia effetti sulla realtà vissuta. Ma contemporaneamente, senza minimamente calarsi nelle derive ora orrifiche ora (ci perdoni Boccaccio) boccaccesche ora criptiche della vicenda, ha mantenuto un distacco dalla materia che allontana qualunque sospetto di compiacimento o di complicità con il pubblico. Agadah è una consapevole operazione di recupero del gusto della narrazione, di attenzione alle fonti, di costruzione di storie concentriche come spesso è la vita, di accettazione di una ineluttabilità che non esclude nessuno. E anche di passaggio indolore dalla Spagna all’Italia meridionale. Come dire che nobili o straccioni, ricchi e poveri, onesti e malvagi, persino angeli e demoni sono comunque indirizzati verso il medesimo destino (chi ricorda la frase che conclude Barry Lyndon di Stanley Kubrick sa di cosa parliamo). Al raggiungimento di questa mèta collaborano in ugual misura tecnici e attori. La fotografia di Claudio Collepiccolo cattura le bellezze naturali del paesaggio per sprofondarle quasi subito in un’oscurità che è della notte e dell’anima. La musica di Alessandro Sironi sembra monotona e ripetitiva mentre interpreta perfettamente il senso ciclico del racconto e la sua fatale destinazione. Poi gli attori: dal protagonista Nahuel Pérez Biscayart, ora attonito ora complice ma sempre predestinato, alle bellezze che non ispirano fiducia di Caterina Murino, Valentina Cervi e Pilar López de Ayala, a facce irregolari come Alessandro Haber e Flavio Bucci che sembrano immancabili in un film così, alla raffinatissima rilettura che Umberto Orsini dà di Belial, tutti contribuiscono al raggiungimento di un obiettivo che di certo non è quello di fare chiarezza sulle cose di questo e dell’altro mondo.

di Fracesco Mininni

AGADAH di Alberto Rondalli. Con Nahuel Pérez Biscayart, Pilar López de Ayala, Caterina Murino, Alessio Boni, Alessandro Haber, Umberto Orsini. ITALIA 2017; Fiabesco; Colore

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