In

“CANDYMAN” Attraverso lo specchio e quel che l’America vi trovò

di Giacomo Mininni

Arriva al cinema «Candyman», una revisione del cult di Bernard Rose aggiornato all’America del Black Lives Matter: poco orrore, ma tanta satira sociopolitica, per un horror inaspettatamente interessante

Nato dalla penna di Clive Barker, Candyman è uno spauracchio, lo spettro del senso di colpa dell’America bianca pronto a vendicare i peccati di un passato schiavista e segregazionista. All’indomani del Black Lives Matter, Nia DaCosta, coadiuvata alla sceneggiatura dal Jordan Peele di Scappa – Get Out e dal Winn Rosenfeld di BlacKkKlansman, reinventa la creatura portata sul grande schermo da Tony Todd nel 1992 e realizza un seguito diretto del film originale, ignorando del tutto i due seguiti (non una gran perdita).
La storia segue l’artista di colore Anthony McCoy che, trasferitosi con la fidanzata nel complesso residenziale di Cabini Green, si immerge nella cultura e nelle leggende metropolitane del posto per trovare nuova ispirazione, spingendosi probabilmente un po’ troppo in là.
Seguendo il protagonista attraverso uno specchio sia reale che metaforico, il nuovo Candyman ripropone vecchie tematiche affrontate di petto dal sottogenere slasher, ma con una nuova consapevolezza, che guarda tanto al
razzismo ancora endemico alla società americana quanto ai processi di gentrificazione che negli anni hanno tentato di spazzare lo stigma dei ghetti sotto il tappeto, coinvolgendo nel processo anche una nuova generazione di afroamericani blanditi col successo economico e per questo spesso dimentichi del destino di chi li ha preceduti.
A risvegliare la memoria storica di questo nuovo ceto abbiente è, nel film, l’antagonista Colman Domingo, custode del passato e desideroso di risvegliare un antico male che diventa preferibile e addirittura auspicabile nelle vesti di protettore da una polizia sistematicamente violenta, da uno scontro razziale intrinsecamente legato a quello di classe, dai soprusi di un sistema tarato per creare reietti e outcast. Candyman, nella nuova storia, non è più un solo serial killer, ma un «alveare», come è definito nel film, un piccolo esercito di vendicatori armati di uncino che ingrossano le proprie file ogni volta che ingiustizia, violenza e soprusi colpiscono la comunità nera.
Più dei fantasiosi omicidi rappresentati, allora, l’elemento davvero horror del film è rappresentato dalla storia dei vari Candyman presenti, ognuno ispirato a eventi reali, omicidi a sfondo razziale raccontati attraverso dipinti che scorrono sui titoli di coda come un manifesto. Nia DaCosta dirige con perizia, non si fa limitare dai canoni del genere e spazia fino ad abbracciare il nuovo filone di horror socialmente attivo e consapevole che trova proprio in Peele uno dei suoi massimi rappresentanti, pur concedendo fin troppo ai dettami di un politically correct che mette a rischio anche la coerenza del racconto (le vittime di Candyman, normalmente chiunque invochi il suo nome davanti allo specchio senza alcuna distinzione, sono stavolta tutte bianche e razziste).
Nonostante questo, la rilettura di uno dei mostri più iconici degli anni Novanta è intrigante e convincente, una nuova caratterizzazione calata nel cuore più profondo dei problemi sociopolitici di un paese ancora schiavo di un passato fin troppo presente. Una bella sorpresa.

CANDYMAN di Nia DaCosta. Con Yahya Abdul-Mateen III, Teyonah Parris, Colman Domingo, Michael Hargrove. USA, 2021. Horror.

trailer di “Candyman”

fonte: Toscana Oggi, edizione del 26/09/2021

Inizia a digitare e premi Enter per effettuare una ricerca