“EVERYTHING EVERYWHERE ALL
AT ONCE”, Un’umanità persa tra miliardi di mondi
recensione a cura di Giacomo Mininni
l multiverso è un concetto derivato dalla fisica quantistica, una teoria secondo la quale, in sintesi, esistono infiniti universi, tanti quante sono state e saranno le opzioni possibili in un dato contesto. Se una persona x deve scegliere tra a e b, esisterà in un universo in cui avrà scelto a e uno in cui avrà scelto b. Le potenzialità filmiche sono chiaramente ricchissime e se ne sono accorti in molti, a partire dai soliti Marvel Studios, che sull’idea di multiverso hanno impostato tutti i film della attuale mandata di supereroi.
Da un punto di vista filosofico e umanistico, però, la teoria del multiverso è ben più di un bel balocco per inventare storie parallele e varianti dei personaggi: è una nuova rivoluzione copernicana, che ridimensiona ulteriormente l’umanità togliendole l’ultima scheggia di antropocentrismo rimastole, l’unicità.
Esistono infiniti «me», che hanno fatto molte delle mie scelte e moltissime di diverse. La prima vittima di questa visione è, inevitabilmente, la questione del senso, del significato di ogni cosa si possa fare, dire, pensare.
È di fronte a questa crisi di senso che si trovano i protagonisti di Everything Everywhere All at Once. Michelle Yeoh è una donna di mezza età che tenta di gestire una lavanderia a gettoni fallimentare tra le ispezioni del fisco e lo scarso supporto di un marito (grande ritorno del Jonathan Ke Quang de «I Goonies» e «Indiana Jones e il tempio maledetto») e di una figlia diversissimi da lei.
Quando viene contattata da una versione alternativa del marito da un altro universo per fermare una minaccia che rischia di mettere fine all’esistenza stessa, le cose diventano anche più complicate. La minaccia in questione è Jobu Tupaki, una versione alternativa della figlia (una brava Stephanie Hsu) che ha acquisito la possibilità di vedere «tutto, ovunque, in una volta sola» come da titolo, e che è piombata nel più cupo nichilismo come risultato. Quello che vuole, allora, è coinvolgere la madre (una qualunque delle sue infinite madri) e condividere con lei questa prospettiva agghiacciante, nella speranza che possa vedere qualcosa che a lei è sfuggito, che possa confortarla trovando un barlume di senso tra le migliaia e migliaia di universi che si ripetono in un cosmo infinito.
In questa avventura esistenzialista, i Daniels si muovono con piglio squisitamente cinefilo, spaziando nei propri rimandi da Stanley Kubrick a Satoshi Kon, da Wong Kar-wai ai Wachowski, impostando un’avventura dinamica, adrenalinica, piena di inventiva e di fantasia ma anche di tanta ironia, che permette di affrontare con leggerezza anche i momenti più emotivamente significativi (il confronto finale tra madre e figlia è in un universo in cui le due sono dei sassi).
Quello che si imposta come un conflitto generazionale, in cui la figlia chiede alla madre di capire e condividere il suo modo di vedere il mondo, la «soluzione», per quanto temporanea e limitata, viene dal padre, sottovalutato e sminuito per tutto il film. Se anche l’universo/multiverso non avesse un senso, e in una prospettiva esclusivamente laica come quella occidentale-positivista non può averlo, sono le relazioni a rendere prezioso ogni momento in ogni esistenza, un amore ostinato e testardo che dà valore alle persone quand’anche l’intero cosmo complottasse per toglierglielo. Per un film che si traveste da trip acido di arti marziali, effetti speciali e momenti comicosurreali, un sottofondo filosofico niente male.
EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE di Daniel Kwan, Daniel Scheinert. Con Michelle Yeoh, Jonathan Ke Quang, Stephanie Hsu, James Hong. USA, 2022. Fantastico
Fonte: Toscana Oggi, edizione del 23/10/2022