Don Milani e il cinema
di Cosimo Scaglioso
L’aspra polemica di don Milani nei confronti delle iniziative e delle attività che riempiono la “ricreazione” e alle quali si aprono le parrocchie in considerazione della loro responsabilità sul piano di una formazione dei giovani tutta distratta da una vita di impegno che guarda a valori ed interessi alti, tocca anche il cinema, compreso tra le “ricreazioni con malizia propria”. La pagina merita di essere riportata per intero. «Adulti, adulti con riserva. Tutti, tutti escluso i giovanissimi.
Buttar fuori di sala i ragazzi (somma pazzia). Non li buttare (altra pazzia, ma preferibile). Ecco i problemi del prete gestore. È un continuo giocare al margine della moralità.
Un affannoso cercare “quomodo sine peccato ad peccatum liceat accedere Ma chi gioca al margine della moralità, se lo fa per suo uso, anche se non intacca il codice, fa però professione pubblica di poco amore. Il probabilismo, cioè la ricerca di ogni scappatoia per mandare assolto un penitente e per fargli coraggio è, in confessione, prassi evangelica e molto sacerdotale. Ma non s’addice certo al sacerdote fuori di confessione come sua regola di vita o come regola del suo agire pubblico quale è per esempio la costruzione o la gestione di un cinema. Del resto l’immoralità di certi spettacoli non è molto più immorale di quel che non lo sia la stupidità di altri classificati per buoni. Ora è noto che il libriccino delle segnalazioni non prende in considerazione la maggiore o minore stupidità di un film. Ma la nostra veste è di maestri e un maestro che insegna per ore ai giovani cose stupide e inutili pecca gravemente. E del resto si poteva fare anche un discorso preconcetto: cinema e televisione dipendono ambedue per loro natura da organizzazioni molto costose. Era fatale dunque che dovessero cadere in mano a dirigenti la cui unica preoccupazione fosse quella di contentare gli spettatori. Ma è appunto qui che si distingue il maestro dal commerciante. Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti. Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti. Lo schierarsi di qua e di là di questa barriera è per il prete decisione ben grave. Si obietta che esistono dei film veramente positivi. Non ne dubito, ma il loro numero è talmente limitato da non permettere l’ammortizzazione delle spese di una sala che si volesse limitare alla loro proiezione» (E.P., pp. 137-138). La polemica, quindi, non è in direzione del cinema, ma piuttosto nei confronti di “certo cinema” e soprattutto nei confronti dell’utilizzazione delle “sale parrocchiali” (poi si dirà delle “sale della comunità”) in chiave commerciale (L. Caimi, La pastorale educativa della Chiesa nel secondo dopo guerra, in AA. VV., Don Lorenzo Milani tra Chiesa, cultura e scuola, cit., pp. 146-168 – in particolare, pp. 155- 160). In questo senso don Milani, al di là della radicalità della sua posizione e la crudezza del linguaggio che utilizza per renderla manifesta, non si muove fuori dalla linea che nei confronti dei media, e del cinema in particolare, veniva tracciata dal Magistero. Penso, per restare al secondo dopoguerra, al volume II cinema nell’insegnamento della Chiesa (a cura della Commissione Pontificia per il cinema, la radio e la televisione, Tipografia vaticana, Roma, 1955), in cui è presente la linea di questo interesse del Magistero, a partire dall’importante discorso (1928) pronunciato da Mons. Julien, vescovo di Arras, in occasione del Primo Congresso di Azione cattolica cinematografica. Ma ci sono anche “interventi alti”, come l’enciclica Divini Illius Magistri di Pio XI (31.12.1929), l’enciclica Vigilanti cura di Pio XI (29.1.1936) e, più tardi, l’enciclica Miranda Prorsus di Pio XII (8.9.1957). Pio XII era già intervenuto a proposito del cinema con due discorsi sul Film ideale in occasione di un incontro con i Rappresentanti dell’Industria Cinematografica Italiana riuniti nella Basilica di San Pietro (21.6.1955) e con i Rappresentanti dell’Unione Interazionale degli Esercenti Cinema e della Federazione Interazionale dei Distributori di film radunati in udienza nell’aula delle Benedizioni (28.10.1955), ora in G. Fossati, C. Sorgi, Il dibattito cinematografico, CSC, Como, 1965, pp. 5-33. Senza dimenticare la vasta produzione francese direttamente interessata al problema dei valori presenti nel cinema (anche per l’attività di registi – valga per tutti R. Bresson – impegnati in film di scoperta ispirazione religiosa), come testimonia la produzione esaminata da Amedeo Ayfre – ricordo Cinema e cristianesimo, 1960, tr. it. e aggiornamento di padre Ernesto Balducci, Edizioni Paoline, Catania. E non dimentico il movimento dei Cineforum (avviato dal 1946 da padre Felix Morlion, padre domenicano attivo presso la Libera Università Interazionale degli studi sociali “Pro Deo” di Roma), che più tardi ebbe a presidente di quella che era diventata la Federazione Italiana Cineforum l’onorevole Vincenzo Gagliardi, che don Milani mostra nelle Lettere di conoscere (mi piace sottolineare che della Federazione già agli inizi degli anni ’60 faceva parte il Cineforum Siena di Piazza dell’Abbadia) o il Centro Cinematografico Cattolico (CCC), la cui attività don Milani conosce molto bene. Qualche spia nella stessa pagina citata di E.P. fa capire che don Milani fosse in qualche modo a conoscenza di questa linea del Magistero, e ancora una volta mi duole il non poter verificare la presenza nella “ipotetica” biblioteca di don Milani di qualche “testo” per una conferma. Ma anche in questo caso provo a “ricucire” indizi sparsi, di più o meno vasto respiro, che ci offrono sia E.P. sia le Lettere. Intanto in E.P. don Milani sottolinea che «quando ho desiderato che il mio popolo vedesse un determinato film positivamente buono (e precisa: “è successo 6 volte in 7 anni”) mi è stata cosa facile ottenere dalla Casa del Popolo o dal gestore privato del cine Concordia… libero dalle spese, grattacapi, perdite di tempo, disonore che importa la gestione di una sala propria)…». E sempre in E.P. – il discorso mette insieme “giornali, cine, radio e televisione” – denuncia la pretesa che “questi quattro mezzi di diffusione” aumentino “il numero delle cognizioni” del “popolo”, in considerazione di un livello culturale, che pure è bassissimo in esse, e che risulta sempre alto rispetto a quello del “popolo”. E siamo di nuovo ad una delle conseguenze delle differenze culturali presenti; e toma ancora Gianni e il figlio del dottore. La pagina anche questa volta è chiara. «Si sostiene che comunque il cinema, la televisione, ecc… aumentano almeno il numero delle cognizioni. Il vantaggio sarebbe poco quando si pensi al danno che è il disabituare al pensiero e alla lettura. Del resto non credo neanche a queste cognizioni, mi pare molto dubbio che un povero che ha visto Napoleone in un film americano abbia fatto un passo innanzi nella propria preparazione storica. Primo per la grossolana mancanza di fedeltà storica che usa nel cinema. Secondo perché la notizia attinta in un film non si può usare neanche se vera perché la presunzione le è sfavorevole. Terzo perché mancano una intelaiatura culturale precedente (cronologia, geografia, ecc.): Napoleone non trova nella mente del povero il cesellino che gli spetta e cade nel vuoto. Non serve sentir dire che Napoleone era imperatore di Francia quando non si sa se la Francia sia una nazione d’Europa o una regione d’Italia. Anzi quando non si sa se la Francia sia un territorio o una città. Mettete i vostri popolani rimpinzati di cine e di televisione dinanzi a una carta d’Europa, chiedete loro di leggervi i nomi delle nazioni e vedrete se non vi ci metteranno anche Parigi e Londra. Se dunque vedrete che manca perfino la sensibilità a quell’articolo determinativo che dovrebbe far distinguere qualcosa anche a chi non sa la geografia, cosa volete che il povero impari da un film o dalla televisione? Sì, imparerà il nome di qualche diva, di qualche campione, di qualche ballo moderno, si farà una speciale cultura in determinati limitatissimi campi uno più inutile e più malsano dell’altro. E ne sortirà un uomo anormale, come un bambino curato a ormoni che abbia sviluppato a maturità anzi a senescenza una sola parte, la meno nobile del suo corpo, lasciando tutto il resto e soprattutto la mente allo stato d’infanzia. In conclusione, dopo aver lamentato che il livello culturale dei giornali, cine, radio e televisione è bassissimo, siamo ora costretti a lamentare che è troppo alto per il nostro popolo. Il mondo ha stabilito (e manifesta particolarmente in questi quattro mezzi di diffusione) uno standard di cultura popolate che presuppone nel pubblico» (E.P., p. 175). Tra i film accennati negli scritti di don Milani, di sfuggita c’è Dio ha bisogno degli uomini (1950) di J. Delannoy, la Corazzata Potemkin (1925) di S. Eisenstein, Non uccidere (1961) di Autant-Lara, Diario di un curato di campagna (1950) di R. Bresson. Qualcosa in più è detto a proposito di Cielo sulla palude (1949) di A. Genina (nella lettera alla madre del 10.3.1951 comunica di aver avuto in prestito “una macchina che proietta tutto” ed «è successo che una brillante idea è caduta come un fùlmine a ciel sereno sul mio capo, cioè un soggetto cinematografico, e allora mi son messo a buttarlo giù per spedirlo a Genina perché lo realizzasse» e le chiede l’indirizzo romano del regista: della cosa si perdono, poi, le tracce). «Appena a Barbiana arriva la corrente, la prima cosa che fa, oltre a comprare la lavatrice per risparmiare fatica all’Eda e a chiedere in regalo macchine per scrivere e calcolatrici elettriche per la scuola (ci sarà stata la mano benefica della ditta di Ivrea di Adriano Olivetti?), è procurarsi un proiettore a 16 mm. con cui vivisezionare coi ragazzi film d’autore analizzandone linguaggio e montaggio, fotogramma per fotogramma e, se occorre, demistificandone la fama di capolavori» (G. Pecorini, Lorenzo Milani…, cit., p. 330, nota 25). Un esempio di questo modo di utilizzare il film è offerto dal regista Angelo D’Alessandro (in «Testimonianze», 1967, 100, pp. 900-902), che aveva portato con sé a Barbiana le pizze del film Tragedia della miniera (1931) di Pabst, presentato e discusso al centro sperimentale di cinematografia di Roma, di linea “pacifista”, come un “classico” del cinema e dopo la quarta proiezione se Pera visto distruggere in maniera pertinente e con competenza, sul piano del contenuto e della recitazione: «Il film nota D’Alessandro – per loro non era affatto un capolavoro, ma un film mediocre. Don Milani punto per punto me lo dimostrò. Quando finì, ero senza fiato: era tutto assolutamente esatto». Puntuali le annotazioni di don Milani a proposito del Vangelo secondo Matteo (1964) di P.P. Pasolini, in una delle lettere-lezioni circolari inviate (1965) dalla Repubblica di Barbiana ai suoi allievi all’estero (in N. Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo, BUR, Milano, 1993, pp. 371-372). Dopo essersi rammaricato della non esaltante affluenza di pubblico (siamo in una sala di Borgo San Lorenzo, FI), continua: «In quanto a Pasolini il suo film dimostra in modo indiscutibile la assoluta buona fede. Basti la prova seguente: le scene mute sono molto belle per loro natura, e fanno fare ai protagonisti una figura di persone spirituali ed elevate (il riferimento va forse ai primi 20 minuti del film, al battesimo di Gesù…). Ora Pasolini è stato così severamente fedele al testo di Matteo, che non ha voluto aggiungergli neanche una parola. C’è una scena, tra la mamma di Salomè e sua figlia, in cui starebbe molto bene farle chiacchierare a scemine parlando di moda e di ballo così accentuando il contrasto tra il silenzio imposante (francesismo che voi non dovete usare) del Battista in carcere. Pasolini, per non inventare un dialogo che nel Vangelo non c’è, le fa star zitte in un silenzio che le fa parere spirituali. Di questi particolari che depongono a suo favore ce n’è un monte. Serio, onesto, religioso, assolutamente alieno dalla ricerca di popolarità a buon mercato. Vi basti sapere per esempio che il cine era vuoto: su tremila abitanti di Borgo vi saranno stati cinquanta presenti più noi. Era l’unica sera in cui veniva dato il film. Viceversa in tante cose il film è difettoso: per esempio il classismo elementare. Sapete bene che anch’io vi ho insegnato così, ma dividere così semplicemente il mondo in ricchi tutti cattivi e poveri tutti buoni, non è certo quello che vi ho insegnato io. E tanto meno il Vangelo che, nella gran maggioranza dei casi, fa passare male i ricchi, e durissimamente. Ma quando poi è l’ora della Passione e i poveri sono scappati tutti, il fatto è che a seppellirlo c’erano solo due ricchi: Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Il Vangelo non è così semplicistico e a tesi come Pasolini. Da tacere questo particolare. Meravigliosi sono invece i visi che si vedono in primo piano, scelti benissimo i personaggi». Michele Gesualdi con una lettera di don Milani del 31.3.1962 (quella in cui si parla del maestro monarca, di cui si è già parlato, con riferimento anche alla nota del professor Marcello Inghilesi, responsabile del doposcuola di Vicchio – La scuola di classe, in «Testimonianze», 1967, pp. 865-871) ci fa sapere come don Milani preparava i suoi ragazzi prima di vedere un film (nel caso specifico si trattava di Roma città aperta, 1944, di Roberto Rossellini, che venne proiettato nell’ambito delle attività del doposcuola di Vicchio): «i ragazzi di Barbiana “avevano letto il più possibile sulla critica, studiato il periodo storico, approfondito il messaggio che intendeva lasciare e l’arte della comunicazione” e seguirono, quindi, la proiezione con grande interesse e attenzione, cogliendo appieno il messaggio storico, politico, sociale e umano ed ogni sfumatura che faceva del film un’opera d’arte» (don Lorenzo Milani, La parola fa uguali, cit., p. 52). I ragazzi di Vicchio, invece, sghignazzavano e chiacchieravano, tanto che don Milani si sentì in dovere di far interrompere la proiezione e fare una scenata agli insegnanti e ai ragazzi. Da qui la lettera al professor M. Inghilesi: «Caro Marcello, ieri ho trattato male quei poveri ragazzi, ma cinque minuti dopo m’ero già accorto d’aver sbagliato destinatari. ragazzi son dei poveri ingannati. La colpa è vostra. I ragazzi di qui son stati unanimi in questo giudizio. Quella non è una scuola, è una pubblica piazza. Ognuno tira per la sua siraua uisunu del prossimo. Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia. Li avete sentiti parlare liberamente durante tutto il film. Ridere quando c’era da piangere. Scambiare le fucilate in via Rasella con quelle dei western. Dare cioè segno evidente che s’erano disinteressati totalmente non solo del film e del suo valore artistico, ma anche, e questo è ben più grave, del periodo storico che descrive e dei suoi problemi politici e sociali. E avete lasciato fare. Chi ha pagato il film? Immagino la scuola o il doposcuola. Cioè noi. E anche voi siete pagati da noi. Cioè noi cittadini di Vicchio abbiamo pagato un film antifascista perché si imprimesse nella mente dei ragazzi di Vicchio e abbiamo pagato voi tre perché steste attenti che l’effetto fosse raggiunto. Io dunque ho fatto una scenata in casa d’altri per modo di dire. Ogni cittadino di Vicchio poteva farla con pieno diritto. Se invece il film era pagato coi vostri soldi personali allora il pezzo di questa lettera che va dal segno a qui buttalo nel cestino. Ti faccio notare altri particolari: la risata per il vaso da notte è stupida, ma non importante. Subito dopo la nuova risata (perché si vede l’uccellino del bambino) è sconcia. L’episodio centrale dell’arresto di Francesco alla sparatoria (episodio che è opera d’arte altissima oltre che lezione di ideali umani politici sociali) è stato sottolineato da risate generali (allo schiaffo, a Marcello che tira pedate, a Francesco che si divincola sul camion, a Marcello che scalcia strappato dal cadavere della mamma). Queste risate sono state tragiche, altre son state sconce (il fascista che guarda le gambe delle donne, la ragazza che si tira su le calze). Ognuna di queste occasioni era più che sufficiente per interrompere il film e fare voi la scena che ho fatto io. Ma lo era anche il tranquillo chiacchiericcio che è seguitato dal principio alla fine sia durante il film che durante le spiegazioni. Ai miei ha dato nell’occhio la vostra indifferenza a tutto questo. Sembravate i frati di Mazzarino rassegnati all’inevitabile. Il silenzio che ha seguito la mia scenata dimostra che i ragazzi risponderebbero subito come i miei se solo uno di voi si degnasse di chiamarli con un po’ d’energia a un più alto ideale di vita. E evidente che mancano ai vostri ragazzi i fondamenti su cui costruire la predica: 1) manca la tensione politica e sociale. Se ci fosse stata, il film sarebbe stato ascoltato in religioso silenzio senza bisogno di scene. Questa tensione si può creare a qualsiasi età e una professo- ressa “socialista” e un professore “cristiano di punta” dovevano fame il pane quotidiano della scuola» (Don Milani inviò la lettera anche al professor Agostino Ammannati – insieme ai temi che i barbianesi avevano fatto sull’episodio). Chiudo questo paragrafo riproponendo dei passaggi della lette- ra-soggetto scritta, in francese, al regista del film Monsieur Vincent (1947), dedicato alla vita di San Vincenzo de’ Paoli, Maurice Cloche (Le. Mi., 15.2.1952), anche per evidenziare quanto unilaterali e fuorviaci siano coloro che si ostinano a vedere un don Milani “in guerra” con i media e con il cinema in particolare. Cloche aveva chiesto a don Milani di preparargli la sceneggiatura di un film su Gesù. Don Lorenzo in prima battuta si schernisce, ma non si tira indietro e mette insieme una serie di osservazioni e di suggerimenti che avrebbero potuto essere utili sia per la stesura della sceneggiatura sia per la realizzazione del film. «La mia preparazione, scrive, è esclusivamente ecclesiastica (rurale!) e non ho la più elementare nozione d’arte o di cinema. Tutto quello che potrei fare è di studiare uno schema generale (indicando i caratteri essenziali della vita di Gesù) dal punto di vista catechistico e dell’apostolato. Ma ciò non può bastare: una sceneggiatura di questo genere non può essere che il frutto della collaborazione di molti specialisti (ambiente ebraico, testo evangelico, lingue orientali, teologia, ecc.). Per commentare il Vangelo non c’è poesia più alta che la scrupolosa ricerca scientifica del vero significato di ogni parola e atto del Signore. La scienza, in altri casi così fredda, è qui calore di vita, la sola capace di rianimare pagine morte, scritte in lingue morte, vissute in un mondo geograficamente storicamente e spiritualmente lontano. Faccia dunque, la prego, un film che abbia l’austerità di un documentario scientifico, fonte d’informazione utile per lo specialista e nello stesso tempo appassionante testimonianza per l’analfabeta. Il ricco e il povero (di cultura) hanno lo stesso diritto di conoscere il loro Maestro com’era, “senza glosse”. Guardi la crocifissione! I quattro evangelisti ci dedicano un mezzo versetto appena. Non una parola d’indignazione, d’amore, di pietà, di fede. E ciò nonostante, è la loro fredda cronaca che da duemila anni incendia il mondo. Ed ecco alcune idee provvisorie (io non ho avuto evidentemente il tempo di pensarci seriamente). Lo scopo del film deve essere, secondo me, catechistico». Il film secondo don Lorenzo avrebbe dovuto: «1) Considerare gli spettatori come adulti. Far loro capire che la storia che hanno sentito nella loro infanzia non era che un riassunto ad usum Delphini d’un fatto rigorosamente storico. Ergo: fedeltà assoluta al testo evangelico, al suo spirito, alla mentalità dell’epoca e dell’ambiente, alle notizie geografiche e storiche e archeologiche, agli ultimi studi di cronologia e d’interpretazione… 2) Affinché la vita di Gesù non sembri che un seguito di episodi staccati: vedere p. es. lo studio magistrale del padre Lebreton su ciò che chiama (se non mi sbaglio) “la paziente pedagogia di Gesù” (Histoire du dogme de la Trinité, voi. I, e Vie deJésus)». E nel dare chiarimenti su questi episodi fissa una serie di deve, fermo il giudizio sulla pedagogia e sull’insegnamento “progressivo” di Gesù: «Gesù non ha dato il suo insegnamento tutto d’un colpo. Ha giorno per giorno studiato i suoi ascoltatori e dosato le sue parole sulla loro capacità progressiva di riceverlo. Questa lotta quotidiana contro l’indifferenza, il dubbio, l’incomprensione, la durezza di cuore e di testa dei suoi ascoltatori è il filo conduttore della sua vita. Seguendolo si assicura al racconto una appassionante unità. Basta mettere gli spettatori nei panni di Gesù, far loro studiare attentamente le reazioni degli ebrei (folla, farisei, apostoli, Giuda, ecc.). Entreranno così, pur non vedendo mai il Cristo, nel centro stesso della sua anima. Vivranno con Lui ansie, gioie, dolori… E sarà la più profonda conoscenza di Lui che essi potranno avere». E svolge alcuni esempi. «Al principio Gesù non giudicò di poter predicare diversamente dal Battista (penitenza). Dopo salì uno scalino (ma sempre nel campo della preparazione dei cuori a ricevere i grandi insegnamenti): Discorso della Montagna. Durante questo tempo ha nominato il Regno. Dovette presto constatare che era stato frainteso. La parola aveva troppo infiammato le speranze temporali dei giovani. Allora Gesù dovette diminuire il loro entusiasmo precisando che cosa il Regno era nella sua intenzione (Giornata delle parabole del Regno). Ma, ciò nonostante, l’entusiasmo delle folle sempre più numerose crebbe ancora. E sul punto di concretizzarsi nell’elezione di Gesù Re. Allora Gesù fu forzato a dare il primo colpo dogmatico {Discorso del Pane di Vita). Sapeva bene di perdere così le masse, ma il suo dovere era di insegnare. L’entusiasmo delle folle che era arrivato al culmine si spezza di colpo. L’apostolato in Galilea è finito. Possiamo misurare il dolore del Signore sui visi indecisi dei dodici restati. Non gli resta che un anno di vita. Decide di concentrare tutti i suoi sforzi sulla formazione dei dodici che dovranno, dopo la sua morte, riprendere l’opera interrotta (Viaggi all’estero). Anche con loro la Pedagogia di Gesù è pazientemente progressiva. Un colpo alla botte, un colpo al cerchio! Li ubriaca d’entusiasmo descrivendo loro la potenza della Chiesa (Banias) e immediatamente dopo li immerge nella delusione dolorosa della profezia della Passione (Mt. 16.21)». Così per quello che riguarda la pagina della Trasfigurazione e quella della “mortificazione della croce”, dell’apostolato in Giudea e via via fino alla Settimana Santa. «Il resto della Settimana Santa procede più o meno come ognuno sa, ma il film potrebbe attardarsi a studiare la genesi psicologica del “crucifige il buono preso alla sprovvista, l’indifferente trascinato, il cattivo che si sforza di dimostrare a sé stesso che ha ragione. Quando vedremo sul Calvario deserto l’ombra della Croce, l’indifferenza dei passanti sarà più tragica che mai perché dal momento che Egli è morto hanno la prova materiale che non era il Cristo». Passa, poi, allo spettatore di oggi. «È strano, ma oggi è più facile che si creda Gesù Dio che Gesù uomo. Il film dovrà far capire a fondo che cosa significa in concreto “la Parola si è fatta carnè”. Immagini di Palestina (paesaggi, case, strade, mercati, lavori, visi, occupazioni domestiche, miseria, sporcizia ecc.) daranno un’idea più precisa che molte parole. Andare a fotografare dal vero la fame che tormenta oggi la Palestina ci darà il più giusto sfondo alla Vita del Signore. Un popolo di schiavi, folle senza pane, bambini rachitici, sofferenze di tutti i generi (il vostro Monsieur Vincent!), ecco il mondo che Gesù ha abbracciato. Il disoccupato e l’operaio d’oggi dovranno uscire dal cinema con la certezza che Gesù è vissuto in un mondo triste come il loro, che ha come loro sentito che l’ingiustizia sociale è una bestemmia, che come loro ha lottato per un mondo migliore». E non mancano “consigli tecnici”: «Tocca a lei decidere se sarà meglio fare tutto il film in prima persona (Gesù nell’obiettivo) o se si potrà fare delle eccezioni. Nel secondo caso suggerisco per es. le scene seguenti: Gesù ragazzo a scuola. Dieci o venti ragazzi sono seduti per terra. Lo spettatore sa che uno di loro è Lui, ma non sa quale. La stessa scena sul Giordano. Il Battista punta il dito verso la folla: “Ecce agnus Dei… Tutti gli occhi si girano da questa parte per vedere il Cristo, il Re tanto atteso. Infine anche l’obiettivo inquadra quel punto: nove o dieci visi di giovani pellegrini sorpresi. Quale sarà Lui? Non si sa, uno qualunque di loro, non ha importanza, ciò che ci interessa è che nel gruppo indicato dal Battista non si vede nulla di speciale. Gesù è là, ma è talmente uomo che non si può riconoscerlo fra gli altri. Stessa scena all’arresto. L’obiettivo inquadra i dodici visi. Se Giuda non avesse promesso di indicare Gesù non si sarebbe potuto riconoscerlo (Mt. 26.48). Ma quando Giuda si muove l’obiettivo è già su di lui, scava nei suoi occhi (Gesù è di nuovo soggetto che soffre cercando invano sul viso del suo infelice amico un segno di ravvedimento). Queste tre scene o altre di questo genere potrebbero impedire che il film dia l’impressione che questo invisibile Gesù abbia una carne diversa da quella degli altri personaggi. Ma forse non saranno necessarie e basterà vedere convergere gli occhi su Gesù-obiettivo per avere la percezione esatta della sua localizzazione e quindi l’evidenza che ha un corpo». Altra cosa, per “Maria”: «Al contrario, si potrebbe forse presentare in scena Maria. Qualche episodio della sua vita di orfanella a Nazareth potrebbe introdurci nell’ ambiente ebraico: l’attesa del Cristo, la religiosità profonda che pervade tutta la vita di questo piccolo popolo d’altra parte così infelice, forse volgare, primitivo, urtante, brutale per un’anima come Maria». Per quanto riguarda “i miracolati” suggerisce: «sarebbe bene conoscere uno di quegli infelici fin dall’infanzia. Seguire in lui la nascita della fede. Affinché quando il miracolo spunterà non sia un episodio qualunque staccato dal contesto, ma qualcosa di vivo (di nostro), d’atteso, quasi di necessario». Non mancano, infine, letture di riferimento e, nel caso non fosse possibile “girare” in Palestina, l’invito a tentare «un film tutto differente: abiti moderni, visi moderni. L’esattezza scientifica solamente nello studio psicologico». Il cinema e don Milani Come già lamentato, a tutt’oggi siamo molto lontani dal poter disporre di un corpus organico e completo degli scritti di don Milani in edizione critica e magari con annotazioni che rendono ragione del contesto storico, sociale e culturale nel quale si collocano, comprese le informazioni relative a quanti sono entrati in relazione con il Priore di Barbiana. E senza tagli più o meno opportuni. Non è possibile, fermo il discorso dei volumi in qualche modo consolidati, inseguire scritti presentati qua e là in raccolte spesso introvabili ed essere esposti allo stillicidio di una lettera, di un documento presentati come un tesoro “privato” (proprio mentre scrivo queste note circola una lettera di don Milani al senatore Luigi Einaudi del 24.2.1959). Non è il caso di ricordare i nuclei “milaniani”, i gruppi legati agli allievi di don Milani, che non riescono a trovare un’intesa, anche per aiutare quanti si impegnano per conoscere, e far conoscere, don Lorenzo. Ancora più complessa la situazione per quello che riguarda la documentazione fotografica, i filmati amatoriali, i documenti che fanno capo a produzioni televisive, brevi filmati e lungometraggi. Anche in considerazione del “materiale di supporto”. Tutte le difficoltà da me vissute in prima persona nel periodo di preparazione del Convegno senese che costituisce il riferimento di questo volume. Grazie alla personale cortesia di Francesco Tagliabue è stato possibile presentare ai convegnisti e ai senesi il film per la televisione di Andrea e Antonio Frazzi: Don Milani. Il priore di Barbiana, 1997 (per noi si è trattato della versione in 35 mm., e non dell’edizione in VHS) e la sesta puntata del programma Viaggio nella lingua italiana a cura di Tullio De Mauro, Giorgio Pecorini e Brunella Toscani, della Televisione Svizzera Italiana, messo in onda il 14.9.1979 (la “cassetta” era in vendita insieme al volume di G. Pecorini, Lorenzo Milani. I care ancora, più volte citato). Franco Manfriani, che ha curato la scelta e la raccolta dei filmati presentati al convegno fiorentino (1980) in L’immagine di don Milani (AA.VV., Don Lorenzo Milani, cit., pp. 283-292), ci offre una panoramica della situazione a quella data. Si è trattato di tre blocchi distinti: Due film a 35 mm., Un Prete scomodo girato da Pino Tosini nel 1975, e Don Milani, girato da Ivan Angeli nel 1976. I filmati girati direttamente a Barbiana, e precisamente: Una lezione di Lorenzo Milani, testimonianza raccolta da Angelo D’Alessandro fra il dicembre del 1965 ed il gennaio 1966, e una serie di filmati ad 8 mm. girati “con garbo e amicizia” in varie epoche dal professor Agostino Ammannati, amico e collaboratore di Lorenzo Milani. Apro qui una parentesi: il prof. Ammannati ha ritrovato, proprio alla vigilia di quel convegno, un altro brevissimo filmato, girato nel 1959, in cui si vedono alcune scene de La Giara di Pirandello recitate dai ragazzi di don Ezio Palombo a Barbiana, ed una scena de La bottega del caffè di Goldoni, recitata dai ragazzi stessi di Barbiana. I filmati televisivi: Educatori moderni: don Milani di Giorgio Straniero e Enrico Franceschelli dalla serie “Scuola aperta” a cura di Vittorio De Luca, della RAI, messo in onda il 3 marzo 1976; e la sesta puntata del programma “Viaggio nella lingua italiana” dal titolo Scrittori non si nasce di Tullio De Mauro, Giorgio Pecorini e Brunella Toscani, della Televisione Svizzera Italiana, messo in onda il 14 settembre 1979. Ad oggi sono disponibili inoltre il DVD Addio a Barbiana di B. Kleindienst, allegato a G. Pecorini, A. Zanotelli, Fa strada ai poveri senza farti strada, EMI, Bologna, 2007; una puntata di La storia siamo noi curata da G. Minoli, trasmessa nell’agosto 2009 nell’ambito di un discorso sulla scuola italiana; un DVD, insieme presentazione e guida, curato dalla fondazione don Milani: Scuola di Barbiana. Mi pare opportuno fermare i due film a 35 mm., utilizzando due schede elaborate in occasione della loro programmazione a cura della Cineteca nazionale (insieme ad una breve rassegna stampa) in omaggio a don Milani. UN PRETE SCOMODO (1975) Regia: Pino Tosini; soggetto: P. Tosini, Enzo Allegri; sceneggiatura: Luciano Lucignani; fotografia: Giuseppe Aquari; musica: Michele Francesio; montaggio: Mario Morra; interpreti: Enrico Maria Salerno, Giuliana Rivera, Ugo Bologna e attori non professionisti; origine: Italia; produzione: Film Boxer Italiana; durata: 101’. «Già applaudito dalla critica al festival di Taormina del luglio dell’anno scorso, il film si presenta di facile lettura per il pubblico. Sottolineando l’aspetto umano di don Milani, e in particolare esaltandone il valido e rivoluzionario metodo didattico, il regista riesce a far convergere l’attenzione sull’aspetto “politico” del priore di Barbiana: i suoi interventi presso i padroni delle fabbriche del luogo, le proteste contro l’autorità ecclesiastica, compresa quella contro il proclama militarista dei cappellani militari riunitisi a Firenze (che gli costò un’assoluzione in vita nel ’66 e una condanna in appello nel ’68, un anno dopo la morte). Salerno si rivela un abile e misurato interprete, anche se talvolta eccede in pathos. Non ci sembra comunque che alcune pecche “tecniche” del film e l’accento più umano che politico siano sufficienti a intaccare un film che ha il pregio di testimoniare, con serietà e fedeltà agli scritti, l’opera umile e intelligente di don Lorenzo Milani» (Ferraù). «Il curriculum professionale non incoraggiava liete speranze sull’attitudine del regista Pino Tosini a fare un film su don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana. Invece un prete scomodo […] si rivela opera di notevole interesse in quanto riesce a legare l’attenzione dello spettatore ai dati di una complessa esperienza religiosa, sociale e psicologica. […] Non è cosa da poco. E gran parte del merito va ad Enrico Maria Salerno, il quale interpreta dòn Milani con grande misura, senza cedere alle facili tentazioni del carattere puntiglioso e aggressivo del personaggio» (Meccoli). (Per la rassegna stampa: 12.12.1975, “Il Resto del carlino” (cast.); 24.1.1976, “Il corriere mercantile” (non firm.); 17.4.1976, “Il Giornale” (g. piac.); 18.4.1976, “L’Unità” (l.p.); e inoltre I. Moscati, Don Milani: il prete scomodo, in Cinema 60, 1975, 110, pp. 30-32; G. Blasich, Il cinema si accorge di don Milani, in Lettere, 1976, pp. 129-130. DON MILANI (1976) Regia: Ivan Angeli; soggetto: I. Angeli, Bruno Paolinelli; sceneggiatura: I. Angeli, B. Paolinelli, Pier Paolo Capponi; fotografia: Roberto D’Ettorre Piazzolli; musica: Alessandro Alessandroni; montaggio: Vincenzo Verdecchi; interpreti: Edoardo Torricella, Claudio Gora, Marina Berti, Renato Pinciroli, Mariangela Giordano, Winni Riva; origine: Italia; produzione: Saba Cinematografica; durata: 98’. «Le tappe nell’itinerario di vita di don Lorenzo Milani (1923-67), una delle rare figure profetiche espresse dal cattolicesimo italiano del Novecento e l’ispiratore (e regista) di Lettera a una professoressa (1967), straordinaria, inquietante descrizione e valutazione dal basso del sistema scolastico e della società italiana, scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana. Film d’esordio dell’attore e documentarista Angeli, è — come Un prete scomodo (1975) — una biografia di taglio televisivo più attendibile dell’altra, più precisa nella descrizione del contesto storico e sociale, meno vittimistica, ma anch’essa impari al modello e priva di quella brusca ironia toscana che era di don Lorenzo. Già Paolo di Tarso in Atti degli Apostoli (1968) di Rossellini, Torricella è un don Milani fisicamente più attendibile e sobrio di E.M. Salerno […]. Vi figurano nella parte di se stessi Gaetano Arfé, Ernesto Balducci, Giorgio La Pira» (Morandini). «Nel 1976 uscirono ben due film su don Milani, il parroco di Barbiana spentosi nel 1967. Questa è la biografia migliore, se non altro perché il regista è tornato sui luoghi dell’azione e ha ripreso le colline toscane con apprezzabile gusto figurativo» (Farinotti). (Per la rassegna stampa: 30.4.1976, “Avvenire” (F. Bolzoni); “Il Giornale” (p.f.); “La notte” (g.c.); 1.5.1976, “La stampa” (l.p.); 7.5.1976, “Il corriere mercantile” (M. Cavagnaro); e inoltre I. Moscati, Don Milani: il prete scomodo, in Cinema 60, 1975, 110, pp. 30-32; G. Blasich, Il cinema si accorge di don Milani, in Lettere, 1976, pp. 129-130). Propongo a questo punto la scheda del film Don Milani. Priore di Barbiana, cercando di recuperare anche note, osservazioni, giudizi emersi in sala e in sede di Convegno, dopo la proiezione. DON MILANI. IL PRIORE DI BARBIANA (Italia, 1997) Regia: Andrea e Antonio Frazzi; sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli; fotografia: Sandro Lecca; musica: Luis Bacalov; scenografia: M. Narducci; montaggio: C. Cutry; interpreti: Sergio Castellitto (don Lorenzo Milani), Ilaria Occhini (la madre), Roberto Citran (Adriano Milani), Arturo Paglia (Michele); produzione: RAI Cinemafiction-Hiland; distribuzione VHS: Mondadori Video. In sala copia 35 mm. per gentile concessione di Francesco Tagliabue, che ringrazio. Durata: 159’. (Del film è disponibile oggi un DVD (Istituto Luce – Roma), nel quale mancano alcune sequenze rispetto al film in 35 mm. “visto in sala”, ma comprende il documentario televisivo L’ultima lettera di don Milani quaranta anni dopo a cura di G. Bianchi e G. Ballini, per la regia sempre dei fratelli Antonio e Andrea Frazzi, dedicato ad Andrea morto nel frattempo). Il racconto dal punto di vista narrativo la storia è come cominciasse partendo dai primi mesi del 1967 con don Milani, ormai consunto dal male (si era rivelato agli inizi degli anni ’60) che ritorna nuovamente a Barbiana, sale verso la canonica su una vecchia millecento guidata da Michele. Manca poco, ma una frana e un albero caduto bloccano la macchina. Michele è molto contrariato, anche per quelli che pensano di venire a Barbiana. Lapidaria la risposta di don Lorenzo: «Tra poco Barbiana non esisterà più. È deciso, Michele. Non si toma indietro. Finirà con me», e, mentre Michele cerca di liberare la strada, si avvia a piedi, fasciato dai ricordi: «Tanti pensano che…quando si fa qualcosa per i poveri… si fa loro un dono. Ma non è così. Quando si fa qualcosa per i poveri… si paga un debito. È per questo che, venti anni fa, m’ero fatto prete… E mi avevano assegnato alla parrocchia di Calenzano, vicino Prato…». E si dipanano i ricordi di Calenzano. Porta i conforti religiosi al piccolo Nello che muore di tetano e si reca sulla sua sgangherata bicicletta in una fabbrica tessile per darne notizia a Giulio, fratello di Nello, rendendosi conto delle condizioni disumane, tra le esalazioni delle vasche delle tinture e il ruggito assordante dei telai, in cui lavorano bambini e adolescenti dai dieci ai sedici anni, vessati anche da multe e timori di licenziamento. L’indignazione di don Lorenzo è grande. Si reca a Firenze, a casa della madre Alice in via Masaccio per chiederle una presentazione per un avvocato amico del nonno, per denunciare il padrone della fabbrica. La denuncia viene scritta durante i lavori della scuola popolare serale, una scuola “aperta a tutti, cristiani e no, bianchi e rossi” (la sagoma più chiara di una croce presente sul muro lascia capire che vi è stato tolto il crocifisso): «Caro giudice, in Italia la legge vieta il lavoro di notte per le donne e i ragazzi sotto i diciotto anni. Però, tutte le notti, qui in paese ci sono 4500 telai che vanno a tutto vapore, e fanno un gran casino. Possibile che la polizia non sente niente?»; è il testo che viene letto da don Lorenzo e sottoposto alla revisione degli allievi. Si cambia Vincipit (signor giudice), mentre resta a dei telai, perché «due telai fanno rumore, cento fanno confusione, quattromilacinquecento fanno un casino» (“quando si scrive, precisa don Lorenzo, bisogna usare le parole giuste”). Intanto don Lorenzo si rende conto che poche sono le presenze in chiesa durante la Santa Messa, forse perché i barbianesi sono alla Camera del Lavoro, e alla nonna Giulia – la madre di Eda – che a Gesù chiede: “Signore, perché non sono qui con noi?”, don Lorenzo corregge la domanda: “Signore, perché noi non siamo lì con loro?”. Intanto, mentre al bar don Lorenzo discute con Giulio, che è stato licenziato, del jìop della denuncia del padrone della fabbrica (la polizia non ha riscontrato presenze illegali – il padrone, avvisato, si era preoccupato di “licenziare tutti gli operai con meno di diciotto anni” -), giunge notizia che un incidente in un cantiere edile ha causato la morte di Libero. Per il funerale “religioso” entrano in chiesa anche i compagni di Libero con le bandiere rosse e salutano la bara a pugno chiuso. Don Lorenzo non abbassa gli occhi: «Hai visto, Libero… i tuoi fratelli sono qui…, dice con voce ferma. Hanno un loro modo di pregare, e di essere addolorati per te… Un modo assai diverso dal mio… ma il Signore conosce molte lingue… anche la loro». La Curia fiorentina, come legge don Bensi in una nota, ritiene che «don Lorenzo Milani, con la sua discutibile azione pastorale, (abbia) portato smarrimento nel suo popolo, talvolta facendo uso di ragionamenti troppo arditi, più spesso ricorrendo a vere e proprie invettive contro le migliori tradizioni della fede popolare», avendo contro “tutti, gli industriali, i comunisti, i democratici”. «Chi la racconterà, osserva a sua volta don Lorenzo, la storia di noi poveri preti, presi fra due fuochi: i comunisti da una parte – incapaci di uscire dalla loro dottrina che non vai nulla, che non ha realizzato nulla, che non sa nulla di libertà – e la vecchia Chiesa dall’altra, incapace di rinnovarsi?». E accetta il trasferimento come parroco a Barbiana. Non da “figliolo” ma da “lazzarone” dice a don Bensi. E si ritorna al 1967. Don Lorenzo nello spiazzo di Barbiana accanto alla Chiesa si avvicina al portale, entra nella chiesa. Vi trova Benito, un barbianese grande e grosso più che fuori di testa, vittima dell’alcol, come lascia capire il priore. Ma ancora lo sorprendono i ricordi: «Sant’Andrea di Barbiana: una chiesa senza paese, in un posto senza luce elettri ca, senza acqua corrente, senza nulla. I casali sparsi sul Monte Giovi erano la mia parrocchia. Quando arrivai erano poche decine di case malridotte, centododici anime in tutto. Restava solo chi era troppo vecchio, o troppo debole, o troppo pazzo. Accanto alla chiesa c’era soltanto una casa abitata da una famiglia di contadini, padre, madre e quattro figli». In chiesa durante la Santa Messa, un bimbo piange e la mamma gli offre il seno e gli parla amorevolmente in dialetto siciliano; scoppia una baruffa alimentata da Benito tra lo scandalo dei presenti e resa più dura dall’arrivo di Gino, un parrocchiano, che reagisce violentemente nei confronti di Benito, esprimendo anche il timore che il priore prima o dopo possa lasciare Barbiana. Don Lorenzo lo blocca guardandolo in silenzio e rassicura tutti che il priore di sua volontà non lascerà Barbiana. Il dattiloscritto di Esperienze pastorali sta per essere licenziato e, mentre la macchina da presa indugia sul primo dei fogli, in una notte nevosa, in una stanza della canonica, don Lorenzo scrive a mamma Alice: «Cara madre, ho acquistato due metri di terra, qui, nel cimitero di Barbiana, perché qui voglio essere sepolto, quando verrà il momento. Da giorni nessuno bussa alla mia porta. Ma io non mi sento solo. Sto lavorando al libro sulla mia esperienza di prete che avevo cominciato a scrivere assieme ai ragazzi di Calenzano. Mamma non devi considerarmi una vittima o un fallito. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui s’è svolta, ma da tutt’altre cose». Dall’inverno all’estate, don Lorenzo continua a lavorare al volume di Esperienze pastorali, disturbato da Benito che ubriaco inveisce contro i ragazzini che sono vicino alla canonica; Benito sembra impazzito, don Lorenzo gli punta una pistola nella pancia (la pistola, naturalmente, è scarica) e Benito “si arrende” con un sorriso. Ci sono degli incontri con compagni di seminario, don Borghi e don Palumbo. Il primo sviluppa la propria missione sacerdotale in tuta e lavora in fabbrica, e mostra di condividere i giudizi di don Milani circa la crisi della parrocchia. Don Palombo, a suo modo, più giovane, guarda a don Milani e alla sua azione pastorale ed educativa come ad un modello; a lui come ha già fatto don Borghi, parla don Lorenzo del suo Esperienze pastorali, in cui ha riversato tutto quello che sa, tutto quello che ha visto da quando è prete e che prima non vedeva. Due bambini (sono Michele e Ferruccio, due fratelli) che frequentano la parrocchia di don Palombo, si mostrano molto irrequieti e spesso si azzuffano. Don Milani, che ha cercato di separarli, si ritrova con un morso alla mano e, con sensibilità educativa, ritiene che almeno il più grandicello potrebbe trascorrere qualche tempo a Barbiana. Le cose si sviluppano in modo che, l’uno dopo l’altro, vengono accolti in canonica a Barbiana, con gioia da parte di Eda, di nonna Giulia e dello stesso don Milani. Intanto davanti al disagio crescente dei bambini in età scolare e di quelli che hanno finito le elementari e destano nei genitori preoccupazioni data la distanza che divide Barbiana da Vicchio, don Milani ha avviato la “sua” scuola. Le resistenze sono molte, come quelle del padre di Silvano. Ma la scuola “parte”. Tutto si svolge nel grande stanzone della canonica al piano terra con tre tavolacci in fila, alcune sedie sgangherate, un pezzo di lavagna, ma, con la buona stagione, l’aula si apre sullo spiazzo intorno alla canonica, sotto il pergolato, all’ombra degli alberi. Qualunque argomento affrontato parte da questioni concrete, da problemi di ogni giorno, dalla vita dei ragazzi, ma trova nella lingua e nella partecipazione interessata il punto di sostegno: «Ogni volta che non capite una parola mi dovete fermare. Perché ogni parola in meno che imparate sarà un calcio in culo in più che prenderete nella vita», dice don Lorenzo; «A me interessa venire a scuola così non devo stare tutto il giorno a pulire le vacche di mio padre. Per me è meglio la scuola della merda», dice Silvano; «a me – sottolinea Michele – interessa solo andarmene via da qui, e pure dall’Italia, andare lontano»; «ecco, conclude don Lorenzo, scrivete allora sul vostro quaderno: I CARE, che in inglese significa “mi interessa, mi piace occuparmi di, mi preme, mi sta a cuore, mi riguarda” e a noi qui dentro CARE tutto». Due avvenimenti, uno triste, l’altro lieto, attraversano il mondo di Barbiana. Michele si è allontanato e non si sa dove sia. Tutti lo cercano disperatamente. Dopo una notte di ricerche viene trovato da don Lorenzo: rimproveri e qualche cinghiata “senza troppa forza, ma con molta rabbia”. Don Lorenzo, ed è il secondo avvenimento, porta i suoi primi “allievi” (Gosto, Carlo, Silvano, Aldo, Giancarlo, Michele) a vedere il mare, e restano stupiti e ammirati dei colori della natura. Tutti in acqua in allegria e al tramonto il pensiero di don Lorenzo è su Gesù, “luce da luce”, “sole senza tramonto”. Ai sei si è aggiunto, intanto, Ferruccio e il dottor Adriano, fratello di don Lorenzo; si recano a Barbiana per fare l’antitetanica a ciascuno dei ragazzi. Ancora una volta qualche problema è creato da Michele. In un pomeriggio di sole, mentre Adriano Milani mostra ai ragazzi – con grande attenzione lo segue soprattutto Carlo – il motore dell’Aurelia, il carburatore, mamma Alice conversa affettuosamente con don Lorenzo; un velo di tristezza copre il suo sguardo e la sua voce. Guardando i ragazzi don Lorenzo commenta: «Non basterà la mia vita intera per farli diventare uomini e donne come si deve. Hanno bisogno di tutto perché non hanno nulla. E non hanno nulla perché non sanno nulla», e la madre, tra un sospiro e l’altro: «Lorenzo, hai fatto quello che hai voluto. Avresti potuto essere tutto. E hai detto no a tutto. E noi abbiamo detto: va bene, se è questo che vuoi». E don Milani: «era proprio questo che volevo. Il silenzio di questa montagna è come un urlo. E Dio m’ha mandato qui per ascoltarlo». Tra i giornalisti che salgono a Barbiana c’è Giorgio Pecorini dell’«Europeo», per un’intervista. Si parla dell’“ipotetica” solitudine di don Milani, che snocciola un po’ di nomi: don Borghi, don Cubattoli, don Palombo, don Bensi… che gli sono vicini. Poi una sfilza di domande dei ragazzi sull’editore-padrone, sulla possibilità di avere un’edizione dei Promessi Sposi, “togliendo via un po’ di vocaboli morti”. Il colloquio si chiude con don Milani che prega Pecorini di sottoporre l’intervista, una volta sistemato il testo, a Maresco Ballini, che fa il sindacalista a Milano, per una rilettura prima della pubblicazione. Al di là delle difficoltà create al volume per essere stato ritenuto “inopportuno” dalla Chiesa, Esperienze pastorali continua a circolare. Elena Brambilla, letto il libro, invita don Milani come suo ospite a Milano per “poterne parlare direttamente con lui”. Don Milani accetta l’invito e si reca a Milano con i suoi ragazzi. Giorni di festa, “nella grande e ricca città”: dalla piazza della Scala, dove incontrano Elena, all’incontro con Giorgio Pecorini, poi all’Opera per vedere La Bohème, infine in un appartamento lussuoso (abitazione di Elena) con le scoperte (luci, mobili, telefono, televisione – Mimmo Modugno canta Volare), il grattacielo Pirelli e poi il ritorno a Barbiana – alla stazione di Milano Maresco conferma che il Vescovo di Firenze “ha chiesto di ritirare da tutte le librerie Esperienze pastorale’. ragazzi di Barbiana, i sei, sono tutti promossi. Don Milani, intanto, si rende conto che la sua salute non va. La conferma viene dal fratello Adriano che gli porta i risultati delle analisi e la lettura delle lastre fatte qualche giorno prima. Don Lorenzo ha un tumore. La notizia viene data e discussa davanti ai ragazzi. Si ritorna alla sequenza iniziale al don Milani quarantaquattrenne, a Michele che è riuscito a liberare la strada dalla frana e dall’albero caduto. In canonica don Milani apre un baule, seleziona del materiale (fogli di giornale, fogli dattiloscritti…) e butta tutto nel fuoco, mentre la sua voce fuori campo sottolinea come sia cresciuta nella considerazione di tutti, in Italia e all’estero, Barbiana e la sua scuola. Le sequenze danno sostanza al suo dire. Ad aiutare don Lorenzo accanto ai ragazzi più grandi, a tutti coloro che salgono a Barbiana portando con loro una fetta di mondo e cultura, due uomini di scuola, il professor Agostino Ammannati e la professoressa Adele Corradi, che vengono presentati in occasione di un incontro tra don Milani e i suoi ragazzi, e il Preside e i docenti della scuola di Vicchio. Si precisano alcuni aspetti della proposta formativa di Barbiana (dal metodo che non può essere esportato altrove – “non resta che spararsi” dice sorridendo don Milani proprio alla Corradi che gli ha posto la domanda -, all’utilizzazione dei giornali – «far leggere ogni mattina il giornale ai ragazzi è un ottimo sistema per far studiare contemporaneamente italiano, storia, geografia, educazione civica, scienze in modo critico» -, e di tutti i giornali). Non mancano cenni polemici: a chi gli chiede perché il Vescovo lo abbia “spedito” a Barbiana, don Lorenzo risponde asciutto: «Il Vescovo di Firenze mi ha spedito tra quattro capre, perché intendeva punirmi. E non sa invece di avermi fatto un dono». Si vedono, allora, all’opera a Barbiana il professor Ammannati (latino, analisi logicogrammaticale, utilizzazione del cannocchiale – prelevato dal liceo – per studiare la volta celeste, la luna…) e la professoressa Corradi che aiuta i ragazzi. Una lettera del Vescovo proibisce a don Milani “di partecipare a ogni e qualsiasi manifestazione pubblica” date le posizioni che assume. Al Vescovo rispondono don Milani e i ragazzi: si lamenta l’abbandono da parte del Vescovo di un prete come “seppellito” a Barbiana e “salvato” dall’amore dei poveri non solo dalle sofferenze che gli sono state causate, ma anche dalle tentazioni del “suicidio”. Tra i ragazzi si stacca Michele, sempre caro al cuore di don Milani, che morde il freno, crea contrasti e apre la “lunga teoria” dei ragazzi di Barbiana all’estero per perfezionare le lingue e lavorare; è, infatti, il primo a partire per Stoccarda, in Germania, tra la sofferenza materna dell’Eda e le malcelate e paterne preoccupazioni di don Milani. Parte, poi, Carlo per l’Inghilterra, Giulio per Dusseldorf, Gosto per la Francia, Carla – prima donna – per il Belgio. Per quelli che restano c’è il mare, una piccola piscina che crea l’illusione di essere come a Viareggio il giorno di Ferragosto. A Barbiana si fa festa: «“dopo cinque anni una famiglia viene ad abitare quassù” con tre bambini fra i quali Marcellino con gravi problemi: non parla a causa di una lesione al cervello. Le attenzioni nei suoi confronti e le cura da parte di tutti i ragazzi, e di don Milani soprattutto, s’intrecciano con l’opportunità di costruire un piano di formazione in direzione di un impegno civile contro la violenza e le guerre offerta da un fatto di cronaca. Dai giornali a Barbiana si viene a conoscenza della posizione che i cappellani militari hanno assunto in Toscana nei confronti degli “obiettori di coscienza”, il cui comportamento viene giudicato come “un atto di viltà, un insulto all’amor di Patria”». Don Milani e i ragazzi si muovono dalla parte degli “obiettori” e scatta “una denuncia contro don Milani per incitamento alla diserzione”. Barbiana viene invasa da lettere aperte, spesso anonime, piene di insulti e di minacce. L’avvocato Gatti, nominato dal Tribunale avvocato di ufficio, sale su a Barbiana per raccogliere informazioni che lo aiutino a impostare la difesa. Mentre, prima nel chiuso poi all’aperto, l’avvocato Gatti, don Milani e i ragazzi discutono, scoppia un piccolo dramma: Marcellino è rimasto chiuso nella macchina dell’avvocato. Dopo alcuni minuti di tensione non solo la macchina viene aperta, ma soprattutto fra la gioia di tutti, Marcellino pronuncia la sua prima parola: “apri! apri!”. Don Milani è stato assolto. È ritornato Michele, intenzionato, insieme ad altri ragazzi, a studiare per diventare maestro, un “povero” per insegnare ai “poveri” e, dopo un nuovo scontro, chiede aiuto a don Milani: “Se tu mi aiuti, ce la faccio”. Si apre a questo punto l’ultima arcata narrativa. Siamo agli ultimi mesi di vita del Priore. Michele, Aldo e Giulio sono stati respinti. Don Milani ha un incontro/scontro con la professoressa. Molti passaggi del “dialogo” rimandano alle pagine della Lettera a una professoressa (“professo- ressa: chi era il padre di Minerva”; «a me non interessa se il padre di uno di loro ha il conto in banca oppure se è un poveraccio: ricco o povero, se uno merita quattro, io gli do quattro»; don Milani: «e sbaglia! Perché fare parti uguali tra disuguali è la cosa più ingiusta del mondo; la mattina vi fate pagare dallo Stato per fare scuola a tutti, la sera vi fate pagare a parte dai ricchi per fare ripetizioni ai loro figli e, a giugno, a spese nostre, sedete in tribunale a giudicare le differenze che voi stessi avete contribuito a creare…»). La salute del Priore peggiora tra ospedale, Barbiana, via Masaccio, ritmata dalla proiezione di un film (Ombre rosse, 1939, di J. Ford), dalla partenza di Francuccio per l’Algeria, da un’impennata di Benito, dalla stesura della Lettera con la regia di don Lorenzo, il contrappunto di Marcellino e Giorgio Pecorini che si ostina a riconoscervi lo stile di don Lorenzo che invece sostiene che “scrittori non si nasce” e tutti possono imparare l’arte dello scrivere («Basta avere la pazienza di stare per mesi su una frase sola, togliendo via tutto quello che c’è da togliere. Anche un contadino, anche un montanaro. E per questo che ho speso la mia vita»). Ma brucia ancora la rottura con Michele. E tornato da Milano. Sta a Calenzano. E don Milani va a trovarlo utilizzando una vecchia lambretta. L’incontro è la pagina più amara della sua esperienza di educatore sotto i colpi di Michele che gli rimprovera di aver nascosto a tutti la vera natura del mondo. Ma qui la grandezza di don Lorenzo educatore e padre: «Se la vita – osserva – t’ha insegnato cose che io non so, insegnale tu a me; divenuta tu maestro… E bello prendere legnate da un figlio. È segno che quel figlio è cresciuto e non ha più bisogno del padre». In ospedale si brinda perché la Lettera ad una professoressa è pronta, ma tutto si fa scuro per una missiva dura e ingiusta del Vescovo, che giunge a «non riconoscere (in don Milani) la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che (lo) fa apparire dominatore delle coscienze prima che padre». È un colpo mortale. Ma i ragazzi sono lì. Michele lo riporta a Barbiana. Poi di nuovo a casa della madre in via Masaccio. Come per incanto tornano tutti i ragazzi dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dall’Algeria. E c’è don Borghi, don Bensi. E c’è Michele, il “suo capolavoro”. «Sta attento ragazzo – gli sussurra don Lorenzo con un filo di voce perché qui, proprio adesso sta accadendo un grande miracolo: un cammello sta passando per la cruna di un ago». Anche l’agonia, anche la morte diventano scuola, pagine di formazione. La chiusa del film è a Barbiana nel piccolo cimitero, nella lapide bianca sulla quale è scritto: “Sac. Lorenzo Milani. Priore di Barbiana dal 1954”, mentre giunge la voce di don Lorenzo: «Caro Michele, caro Ferruccio, cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze. Un abbraccio. Vostro Lorenzo», nel verde di Barbiana. L’aspetto tematico Il film, come si evince dal l’analisi-sintesi-narrativa, è la storia dell’esperienza umana, religiosa, educativa di don Milani dagli anni di San Donato (dal 1974) a quelli di Barbiana (dal 1954), fino alla morte (1967). Le sequenze, nel loro dipanarsi, acquistano senso e significato, in chiave tematica, dall’ottica pedagogico-educativa privilegiata che piega ad un discorso unitario non solo quelle che scopertamente rimandano alla scuola (dalla Scuola popolare di San Donato alla scuola di Barbiana e ai ragazzi), ma anche quelle nelle quali il fatto è d’altra natura (come la morte di Nello, la fabbrica di Prato dove lavorano i minorenni, la morte e il funerale di Libero, l’annuncio di don Bensi del passaggio da San Donato a Barbiana, i momenti di colloquio con don Borghi e don Palombo, la siciliana che allatta durante la Messa, il capitolo dei cappellani militari e del processo) e le sequenze in cui la piena degli affetti velati a volte di ironia e di malinconico rimpianto tra ciò che avrebbe potuto essere e ciò che era, si rivelano nei rapporti con mamma Alice, “mamma” Eda, Adriano fino alla lunga fase della malattia, dell’agonia e della morte. “Tutto è grazia”, diceva il giovane curato di G. Bemanos. Tutto è scuola, tutto è formazione, tutto è educazione, sembra dirci don Milani, perché tutto è esperienza educativa e testimonianza per un impegno nei confronti degli ultimi, anzi per l’ultimo degli ultimi: Marcellino. E in questo canale collettore troviamo una sorta di decalogo pedagogico: accoglienza, dedizione totale, scelta metodologica, scelta di strumenti, attenzione all’hic et nunc, tesoreggiamento delle occasioni e delle opportunità, e su tutto lingua e lingue. L’analisi tematica muove verso il messaggio chiave: più ancora che la povertà materiale a far male ai poveri è la povertà linguistica, la povertà culturale, la povertà dell’intelligenza sprecata. “Fondamentalismo scolastico” che non ha nulla a che fare con il ‘68 e i suoi slogan e con buona pace di quanti rancorosamente e’ quasi chiusi erano, e sono, nell’impossibilità di capire una nuova idea di scuola, lontana dalla cultura dei sussidiari e più vicina anche nel linguaggio alla quotidianità, alla vita. Certo si possono individuare altri assi tematici, ma a me pare che questo resti il nucleo tematico che viene privilegiato, che recupera e illumina tutti gli altri, da quello più propriamente storico-sociale a quello che denuncia la staticità della Chiesa preconciliare e l’ottuso adattamento di una parte del clero, al clima di contrapposizioni tra forze politiche e sociali lontane ormai dallo spirito che aveva animato la Resistenza e la stagione della Costituente, al fascino dei media dal volare di Modugno alla “voce intonata” di Mina. Il taglio strutturale Questa sostanziale unità tematica si distende lungo tutto lo sgomitolarsi delle sequenze, sorretto da una tensione politica, sociale, affettiva, religiosa, poetica che nella semplicità pedagogico-didattica del tessuto narrativo non presenta cadute retoriche o sentimentalismi d’accatto. La struttura, diciamo così, elicoidale che sollecita la memoria, si apre mirabilmente al fascio degli episodi sempre retti, nella loro verità fattuale o nella loro verosimiglianza, da una parola mai gratuita o superflua, da un’immagine luminosa e fresca ma spesso terribile di paesaggi verdi e solari, di esterni e di interni che non nascondono condizioni di emarginazione, di isolamento sociale, di povertà, da una colonna sonora che accompagna o sottolinea, rafforza il nucleo tematico centrale. Insieme ricordi e riflessioni. Le arcate dei ricordi che emergono nei vari flash-back non sono infatti pagine di una memoria stanca e retoricamente fine a sé stessa, ma opportunità di riflessioni, richiami di insegnamenti offerti da un’esperienza vissuta, amara spesso, dolce a volte, ma sempre serenamente avvertita come segnata dal “dito” di Colui che scrive la storia e governa gli uomini. Così è della sequenza iniziale del sorriso amaro di don Lorenzo e della premonizione del “tra poco Barbiana non esisterà più. È deciso”, e giù il tutto di San Donato fino al «guardavamo (del 6.12.1954) davanti a noi ma nessuno aveva il coraggio di parlare: una chiesa, la canonica, due cipressi… Barbiana era tutta lì». Così è della seconda arcata con il “tutto è morto” di Benito, che sembra tornare a vivere per il ritorno momentaneo del Priore, con le note di don Lorenzo su «una chiesa senza paese, un posto senza luce elettrica, senza acqua corrente, senza nulla. Quando arrivai erano poche decine di case malridotte, centodieci anime in tutto», e via via con “la scuola la farò io, sarò io il maestro”: ed è l’arcata di qualche nodo centrale, con “i ragazzi che crescevano, diventavano grandi” e cresceva Barbiana, e Michele e Marcellino. Poi, verso le arcate sempre più nette verso la chiusura del film, l’agonia e la morte. In questo quadro strutturale con punte loro proprie: cfr. da quella iniziale di Michele che riporta in macchina don Lorenzo a Barbiana, allo scontro Michele/Francuccio, alle brevissime sequenze dei due fratelli che dormono, al Michele che sorprende don Lorenzo in un momento di tristezza, al Michele che va in Germania, che va a Milano, al Michele che si contrappone a don Lorenzo e alla scuola, fino al Michele delle ultime ore di via Masaccio; né va posta tra parentesi la vicenda di Marcellino, il filone del rapporto con mamma Alice e mamma Eda, quello con il fratello Adriano, quello con i sacerdoti amici, quello più “politico” che riguarda l’attenzione ai “lontani” e i rapporti con la curia fiorentina fino ai cappellani militari, la difesa della responsabilità individuale e l’obiezione di coscienza, il processo si possono seguire “storie” interne che sono come il sistema nervoso che regge il nodo tematico centrale privilegiato. Al don Milani, inoltre, dalle scelte radicali, severo con se stesso e con gli altri, non mancano note di “debolezza” affettiva e di “dolcezza” nello sguardo, nelle azioni, nel sorriso, nei gesti, nelle attenzioni che danno dimensione umana a quelle scelte e a quelle severità, nei rapporti con i ragazzi, con la madre, con il fratello Adriano, e allo stesso impegno di educatore. La scrittura fluida Contribuisce, nel senso specifico, alla tenuta del film anche il piacere di una scrittura cinefotograficamente più che televisivamente connotata, che si lascia apprezzare sullo schermo di una sala cinematografica, con tutto ciò che è rituale e porta con sé, piuttosto che sul piccolo schermo, ed è sorretta dalla calda fotografia di Franco Lecca nel suo ritagliare e scontornare piccole e grandi vedute paesaggistiche, sconnesse strade di montagna (siamo, in fondo, nel Mugello), interni segnati da miseria e povertà, ma anche quelle lussureggianti, nell’uso sapiente della luce, dalla scenografia semplice ed attenta di Maurizia Narducci, dal montaggio pacato e disteso di C. Cutry e dalla sceneggiatura netta e insieme semplice di Sandro Petralia e Stefano Rulli, fedeli ai testi di don Milani e allo spirito che li anima. All’occhio e all’intelligenza filmica dei fratelli Frazzi il merito di un discorso che è cinema, nell’utilizzazione piuttosto sorvegliata della musica di Luis Bacalov forse a volte piena, che in alcune frasi mi riporta all’Antonio Vivaldi di Ragazzo selvaggio di F. Truffaut che probabilmente sarebbe piaciuta al Priore che amava Beethoven e Bach, al quale ultimo aveva affidato al momento in cui stava lasciando Calenzano per Barbiana parte della sua tristezza alle note di un pianoforte. Stupendo lo Stabat mater dolorosa finale di Pergolesi. Ai fratelli Frazzi anche il merito della scelta e della direzione dei cento ragazzi del Mugello che mi hanno riportato ai momenti migliori di Vittorio De Sica (da I bambini ci guardano – 1944, a Ladri di biciclette – 1948, a Sciuscià – 1946 – e soprattutto al Francois Truffaut di I quattrocento colpi – 1959, di II ragazzo selvaggio – 1970, Gli anni in tasca – 1976); e di Sergio Castellino dalla recitazione sobria, efficace ed essenziale, e di Ilaria Occhini, una mamma Alice presente anche nell’assenza, affettuosamente protettiva ma senza saperlo (le sequenze di don Milani e di mamma Alice sono struggenti nella tenerezza e nella serena tristezza che le attraversano); e, dell’apparentemente scanzonato dottor Adriano di Roberto Citran e del tormentato Michele di Arturo Paglia, e in particolare di una scrittura in cui l’embricarsi dell’immagine, della parola e della musica costituisce il dato vincente. Sul giudizio positivo che tocca anche l’aspetto estetico si configurano soltanto come leggere nebbie di un mattino d’estate, le riserve espresse da coloro che hanno criticato o l’utilizzazione delle “parole” di don Milani in contesti diversi da quelli in cui furono “dette”/scritte o il fatto che don Lorenzo con tutto il riguardo che insegnava ad avere per la propria roba avesse lasciato i suoi ragazzi a fare il bagno vestiti o il falso delle “giornate milanesi” (l’incontro con Elena che non era presente in quei giorni a Milano, la lussuosa casa inverosimile, l’incontro in biblioteca di don Milani con la professoressa dopo la bocciatura dei ragazzi). Le “licenze” del racconto cinematografico non spostano clima, natura e sfondo della vicenda. E la stessa accusa di “averci consegnato” un “santino” e una storia “tutta panna di bontà” a me è risultata pretestuosa come le attente analisi e riflessioni sviluppate sottolineano..