IL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
(Da Andrea Sani, Il cinema pensa? Cinema, filosofia e storia, Loescher, Torino 2008, pp. 8-14)
1. La nascita del cinema
Il cinema nasce nel 1895. A quell’anno, infatti, risale tradizionalmente l’invenzione dei primi apparecchi da ripresa e da proiezione cinematografica, attribuita ai fratelli francesi Auguste (1862-1954) e Louis-Jean Lumière (1864-1948).
L’invenzione dei Lumière è presentata per la prima volta a un pubblico pagante la sera di sabato 28 dicembre 1895, a Parigi, al Salon Indien del Grand Café sul Boulevard des Capucines. Alle 18 e 25 si fa buio in sala e sullo schermo bianco si proiettano dodici riprese animate della durata di un minuto e mezzo ciascuna. La prima si intitola L’uscita dalle fabbriche Lumière (La sortie des usines Lumière, 1895) e consiste in un breve documentario sugli operai della Lumière che a piedi o in bicicletta escono dall’officina per tornare a casa. Seguono le immagini della colazione di un bambino di pochi mesi; poi viene proposto il primo film a soggetto della storia del cinema, L’innaffiatore innaffiato (L’arroseur arrosé, 1895), buffa vicenda di uno scherzo fatto da un ragazzino a un giardiniere intento a innaffiare i fiori.
Tuttavia, i 35 spettatori del Grand Café provano un’emozione indimenticabile soprattutto con L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat, 1895): restano senza fiato davanti all’immagine di un convoglio ferroviario in movimento che dal fondo procede prospetticamente verso il primo piano dando l’impressione d’uscire dallo schermo per irrompere nella sala.
Se il primo giorno di proiezione al Grand Café frutta soltanto 33 franchi, nell’arco di tre settimane vengono incassati 2000 franchi al giorno. Rapidamente, gli spettacoli cinematografici dilagano in Europa e nel Nordamerica.
Uno dei pionieri del nuovo mezzo cinematografico, il francese Georges Méliès (1861-1938), illusionista di professione, intuisce che un film può essere non solo riproduzione passiva della realtà quotidiana, ma anche e soprattutto finzione in grado di far sognare gli spettatori.
I suoi lavori, come Il viaggio sulla Luna (Le voyage dans la Lune, 1902, della durata di 15’), puntano sul meraviglioso, sul magico e sul fantastico, in contrapposizione al realismo proposto dai Lumière.
Ma è specialmente grazie al regista statunitense David Wark Griffith (1875-1948), definito il “padre del linguaggio cinematografico”, o “l’uomo che inventò Hollywood”, che il cinema diventa un’arte.
Il suo film del 1915, Nascita di una nazione (The Birth of a Nation), grande epopea sulle vicende di due famiglie divise dalla guerra civile americana, porta a pieno compimento espressivo tutte le innovazioni linguistiche e narrative precedentemente sperimentate.
Sin dagli inizi del Novecento, il cinema assume anche una notevole importanza economica e sociale. Sorgono le grandi case di produzione, gli studios, i circuiti distributivi per i film e tutti quegli elementi che costituiscono ancora oggi l’apparato produttivo dell’industria cinematografica.
2. Le rivoluzioni del cinema
Il cinema nasce muto. I primi film si servono di didascalie per la comprensione delle storie narrate. Le scritte riportano brani di dialogo, spiegazioni, indicazioni di tempo ecc. Bisogna aspettare il 1927 perché, negli Stati Uniti, venga proiettato il primo film interamente sonorizzato, Il cantante di jazz (The Jazz Singer) di Alan Crosland (1894-1936), con Al Jolson (nome d’arte di Asa Yoelson), il più grande divo della canzone del momento. Il cantante di jazz comprende scene parlate e cantate, oltre a un commento musicale e ad alcuni effetti sonori. La grande prima di questa storica pellicola avviene il 6 ottobre a New York. L’avvento del sonoro non è l’unica rivoluzione nel cinema, ma risulta la più importante.
Nel 1935, ha luogo il secondo, significativo cambiamento: nelle sale è distribuito il primo lungometraggio a colori, Becky Sharp di Rouben Mamoulian (1897-1987), tratto dal romanzo La fiera delle vanità (Vanity Fair, 1847-48) di William Makepeace Thackeray (1811-63), e inizia, così, il progressivo abbandono del bianco e nero. Oggi, solo eccezionalmente qualche regista rinuncia al colore, magari per riprodurre le atmosfere degli anni Quaranta e Cinquanta. È il caso, per esempio, di Schindler’s List (id., 1993) di Steven Spielberg (1947-viv.), dedicato all’Olocausto, in cui il regista alterna il bianco e nero al colore per sottolineare la differenza fra passato e presente.
Nel corso della sua storia, il cinema offre soluzioni sempre più moderne e spettacolari, per esempio il CinemaScope. Lo schermo panoramico, inaugurato nel 1953 con il kolossal La Tunica (The Robe) di Henry Koster (1905-88), potenzia l’efficacia delle scene di massa, rafforza ancora di più la mitizzazione dei personaggi eroici e garantisce emozioni che la televisione, all’epoca appena agli esordi, non riesce certo a surrogare.
Un tentativo meno fortunato è il Cinerama, un procedimento tecnico che consiste nel riprendere la stessa scena con tre macchine da presa, da posizioni contigue. Le pellicole sono poi riprodotte da tre proiettori in sincrono in un’unica immagine gigantesca, su uno schermo concavo che abbraccia un angolo di 140 gradi e si estende intorno alla platea per una trentina di metri. Nel 1962 viene girato in Cinerama La conquista del West (How The West Was Won) un grandioso film western a episodi firmato da John Ford (1895-1973), Henry Hathaway (1898-1985) e George E. Marshall (1891-1975). L’effetto di immersione nello spettacolo è notevole ma la giunzione fra le tre immagini sullo schermo risulta visibile e un po’ tremolante. Questo difetto, unito al costo molto alto delle attrezzature che occorre installare nelle sale, fanno sì che il Cinerama cada presto in disuso, sostituito da formati cinematografici più semplici per il grande schermo come il Todd-Ao e il Panavision.
Oggi la componente tecnica più rivoluzionaria della produzione cinematografica è l’impiego sempre più massiccio degli effetti speciali e, in particolare, della computer graphics. Questa nuova tecnologia elettronica permette sia di manipolare al computer inquadrature fisse e in movimento riprese con i sistemi tradizionali, sia di generare immagini tridimensionali di tipo virtuale, che cioè non esistono in natura. Nel 1982, il trattamento grafico delle immagini è utilizzato per la prima volta in una sequenza di 16 minuti nel film di fantascienza Tron di Steven Lisberger (1951-viv.). La computer graphics ha reso possibile la visualizzazione delle creazioni più ardite della fantasia, come nel nuovo ciclo di Star Wars (id., 1999-2005) di George Lucas (1944-viv.), o nella trilogia del Signore degli Anelli (The Lord of the Rings, 2001-03) di Peter Jackson (1961-viv.).
3. L’inquadratura
Il cinema è diventato ben presto un oggetto di studio per i linguisti, che lo considerano un particolare “linguaggio”, ossia uno strumento di espressione caratterizzato da alcuni elementi fondamentali.
L’unità minima di un film – che corrisponde ai fonemi del linguaggio verbale o alle note della musica – è identificata nell’inquadratura, che può essere definita sia come la quantità di spazio incluso nella cornice del fotogramma, sia come il frammento ininterrotto di un’azione filmica, corrispondente a ciò che appare sullo schermo fra due tagli di montaggio.
L’inquadratura non è fine a se stessa, perché la sua interpretazione dipende dal ruolo che essa svolge all’interno della sequenza alla quale appartiene. Infatti, tale interpretazione potrebbe variare se l’inquadratura fosse inserita in un contesto diverso.
A questo proposito, il grande regista russo Vsevolod I. Pudovkin (1893-1953) raccontava l’esperimento effettuato dal suo maestro Lev V. Kulešov (1899-1970). Kulešov aveva ripreso l’inquadratura del volto dell’attore Ivan Mosjoukine, seguìto, subito dopo, dall’inquadratura di un piatto di cibo. Sul viso di Mosjoukine si leggeva l’appetito. Successivamente Kulešov aveva tolto l’inquadratura del piatto di cibo, mettendo al suo posto quella di un di un bimbo morto: sul medesimo primissimo piano di Mosjoukine si poteva leggere, ora, la compassione. Variando il montaggio, cioè la disposizione dei fotogrammi, varia, dunque, il significato della stessa immagine (in questo caso il volto dell’attore).
Le inquadrature di un film si possono così paragonare a dei pezzi su una scacchiera: quello che conta non è il pezzo in sé, ma la sua posizione nelle varie caselle e all’interno delle regole del gioco. Nel caso del cinema siamo di fronte a un gioco linguistico, per usare una terminologia introdotta dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Nei suoi scritti degli anni Trenta, Wittgenstein paragona il linguaggio a un gioco, perché il significato di una parola non è l’oggetto al quale il termine si riferisce, ma è l’uso che possiamo fare di esso nel contesto delle regole del gioco linguistico in cui è inserito. Parole uguali hanno significati diversi in contesti differenti, mentre parole diverse possono svolgere le stesse funzioni. La stessa cosa si può dire per le inquadrature di un film.
Il paragone fra i giochi e i linguaggi proposto da Wittgenstein può servire anche per capire i rapporti che legano il cinema alle altre forme di espressione, come la letteratura, il teatro ecc. Il filosofo austriaco osserva che fra i diversi giochi intercorrono delle affinità molto simili alle analogie che si possono riscontrare fra i membri di una stessa famiglia. Per esempio, i giochi da scacchiera (come la dama, gli scacchi ecc.) si assomigliano fra loro come i parenti stretti. Se invece si passa ai giochi con le carte, osserviamo che ci sono ancora numerose corrispondenze con i giochi del primo gruppo, ma vediamo anche che molti tratti simili sono scomparsi. Ciò che essi hanno in comune con i giochi precedenti è, al massimo, una certa “aria di famiglia”.
Anche tra il gioco del cinema e quello degli altri linguaggi esistono “somiglianze di famiglia”, cioè caratteristiche comuni che si sovrappongono a tratti originali, come succede tra familiari per la corporatura, i lineamenti del volto, il colore degli occhi, il temperamento ecc.. Per esempio, i film riprendono dalla fotografia alcuni aspetti tecnici (come l’uso della pellicola, degli obiettivi, delle luci), dal linguaggio pittorico i modi di strutturare l’immagine (le regole della prospettiva, l’illuminazione, e così via), dal linguaggio della letteratura i modelli della narrazione e della caratterizzazione dei personaggi, e dal linguaggio del teatro gli stilemi della scenografia e della recitazione. Tuttavia, la fotografia in movimento, il montaggio, i movimenti della macchina da presa (m. d. p.) costituiscono dei tratti non ereditati dalle altre arti, che risultano invece specifici del cinema. Tipica di quest’ultimo è
anche la combinazione dell’elemento sonoro con il visivo: un film integra nel suo linguaggio vari codici sonori, come il parlato, la musica e i rumori, che gli conferiscono una serie di peculiari potenzialità espressive.
4. Punti di vista, angolazioni, piani e campi
Scendendo un po’ più nel dettaglio del linguaggio filmico, si può dire che l’inquadratura scelta dal regista determini il punto di vista della narrazione cinematografica. Tale punto di vista può essere oggettivo quando la m. d. p. ha una posizione propria, indipendente da quella dei protagonisti, o soggettivo, quando la m. d. p. rappresenta le immagini che vede un personaggio presente sulla scena, come se l’obiettivo si trovasse al posto dei suoi occhi. Un esempio di ripresa in soggettiva si ha nella scena finale del suicidio del colpevole nel film di Alfred Hitchcock (1899-1980) Io ti salverò (Spellbound, 1945) con l’immagine di una pistola rivolta verso la m. d. p., cioè direttamente verso lo spettatore.
Un altro tratto distintivo dell’inquadratura è l’angolazione, cioè l’inclinazione della m. d. p. rispetto all’oggetto che si sta filmando. Un’angolazione risulta normale se è ad altezza d’uomo, dall’alto o dal basso se la m. d. p. è in posizione più alta o più bassa rispetto a ciò che si sta riprendendo, obliqua se è inclinata lateralmente. L’angolazione normale consente di riprodurre un avvenimento nella maniera più realistica e oggettiva. Invece, un’inquadratura dal basso conferisce in genere importanza e maestà alle persone o alle cose inquadrate. Si veda, a tale riguardo, l’entrata in scena del re Enrico VIII (Robert Shaw) nel film di Fred Zinnemann (1907-97) Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons, 1966), ripreso dal basso per sottolinearne la volontà di potenza. Al contrario, un’inquadratura dall’alto “schiaccia” le figure e ne diminuisce il valore, mentre un’inquadratura obliqua suscita un senso di inquietudine, sottolineando spesso un’atmosfera di paura.
Nell’inquadratura, inoltre, si possono distinguere i piani e i campi, in relazione, rispettivamente, alla figura umana che viene rappresentata o allo spazio delimitato all’interno del fotogramma.
I piani segnano la distanza delle figure umane o degli oggetti dalla m. d. p., e possono essere così schematicamente classificati:
Primissimo piano.
Corrisponde alla sola testa o al solo volto dell’attore. Vedi, per esempio, il primissimo piano del volto di Alex (Malcolm McDowell) all’inizio di Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) di Stanley Kubrick (1928-99).
Primo piano.
L’attore è ripreso fino alle spalle.
Piano americano.
La figura umana è inquadrata dalle ginocchia in su.
Il piano americano fu molto usato dal cinema statunitense delle origini, perché, con gli obiettivi allora disponibili, le inquadrature troppo vicine alla m. d. p. potevano andare “fuori fuoco”.
Figura intera.
La figura umana occupa l’intera inquadratura. Si usa quando si vuole mostrare lo spostamento dei personaggi in un ambiente.
Con i campi, l’inquadratura si allarga dal piano all’area circostante. Infatti, il campo non fa riferimento alla figura umana come il piano, ma allo spazio. Anche i campi risultano di vario tipo, e si distinguono in:
Campo medio.
Inquadra tutta la persona ed estende la visuale a una parte dello spazio situato al di sopra e al di sotto di essa.
Campo lungo.
Abbraccia uno spazio molto ampio e le persone sono inquadrate in lontananza.
Campo lunghissimo.
Il punto di vista è collocato il più lontano possibile, come in una panoramica, per cui il personaggio, se c’è, risulta appena visibile.
Campo totale.
Rappresenta nella sua totalità un ambiente, come, per esempio, una stanza in cui si muovono i personaggi. La profondità di campo totale è un tipo di ripresa grandangolare, realizzata con un obiettivo da 25 o 18 mm, nella quale tutti gli oggetti, sia quelli vicini sia quelli lontani, appaiono “a fuoco”. Lascia maggiore libertà di movimento agli attori, facendo svolgere azioni anche sullo sfondo. Celebri esempi di profondità di campo totale si trovano in alcune scene del film Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles (1915-85), con la fotografia di Gregg Toland (1904-48).
5. I movimenti della macchina da presa
L’inquadratura può essere fissa o mobile. In quest’ultimo caso, la m. d. p. si muove seguendo l’azione. I principali movimenti della m. d. p. sono i seguenti:
La panoramica. La panoramica è una ripresa cinematografica nella quale la m. d. p. ruota su sé stessa anche di 360°(come lo sguardo circolare di una persona). La panoramica spesso crea suspense, ovvero uno stato di sospensione o di incertezza che produce ansia negli spettatori, perché si ha la sensazione che il regista voglia condurci a vedere qualcosa di importante. In genere, la suspense cinematografica consiste nel mettere il pubblico nella condizione di sapere che a un certo momento può accadere qualcosa di pericoloso per il protagonista del film, che il personaggio stesso non sospetta o che non sa come evitare.
Il carrello. Il carrello è un veicolo sul quale è posta una piattaforma con la m.d.p. e che scorre su un binario avanti e indietro, o a destra e a sinistra. I movimenti che può operare sono chiamati “carrellate”. Attualmente il carrello viene molto usato per seguire i personaggi,quando camminano nella strada, o in casa.. Oppure è utilizzato a scopi spettacolari, come nei film storici per penetrare in un ambiente e descriverlo. Una variante del carrello è il camera-car, in cui la m. d. p. si trova su un’automobile in movimento. Memorabile è l’impiego del camera-car nel finale di Ombre rosse (Stagecoach, 1939) di John Ford, per la ripresa della corsa della diligenza assalita dagli indiani.
La steadycam. La steadycam è una m. d. p. che si porta appesa sul petto con un’imbracatura, fornita di contrappesi. Inventata nel 1975 da Garrett Brown,permette all’operatore di camminare, di correre e perfino di salire le scale continuando a mantenere stabile l’immagine. È utile nei momenti di grande tensione drammatica. La steadycam è usata per esempio da Stanley Kubrick nel suo capolavoro horror Shining (The Shining, 1980) per i movimenti labirintici dei personaggi lungo i corridoi, le scale e i saloni dell’Overlook Hotel.
Il dolly. Il dolly è una piccola gru che consente il movimento della m. d. p. verso l’alto o verso il basso. Il dolly può arrivare fino a quattro metri di altezza.
La gru. La gru è un braccio meccanico snodato che sorregge una piattaforma mobile su cui stanno la m. d. p. e gli operatori; questa piattaforma può salire fino a quindici metri, ma anche ruotare intorno e girarsi in qualunque direzione. Stanley Kubrick si serve della gru per riprendere dall’alto la scuola dei gladiatori di Capua in Spartacus (id., 1960).
Lo zoom. Lo zoom produce un effetto di avvicinamento o di allontanamento mantenendo ferma la m. d. p., attraverso il cambio di focale dell’obiettivo. Stanley Kubrick introduce moltissimi zoom “all’indietro” in Barry Lyndon (id., 1975), che partono da una figura singola e poi la contestualizzano, allargando l’inquadratura al paesaggio circostante.
6. La scena e la sequenza
Accanto all’inquadratura, altri elementi della narrazione filmica sono la scena e la sequenza.
La scena è un elemento cinematografico proveniente dal teatro ed è caratterizzata da una fondamentale unità spaziale. Può essere composta da una o più inquadrature e termina quando i personaggi cambiano luogo.
La sequenza è invece caratterizzata da una fondamentale unità d’azione, rappresentando cioè un’azione unica di senso compiuto (inseguire un nemico, cenare con qualcuno ecc.). Una sequenza può comprendere molte inquadrature ma anche molte scene. Infatti, uno o più personaggi possono compiere un’unica azione trasportandosi da un luogo all’altro, cambiando appunto scena. Se la sequenza è
composta da una sola inquadratura, priva di stacchi di montaggio, allora si ha il caso limite del piano-sequenza. Per esempio, il film giallo di Brian De Palma (1940-viv.) Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) inizia con un lungo e impressionante piano-sequenza di 14 minuti. Il regista passa con la macchina da presa da un’immensa arena di boxe ai corridoi sotterranei, poi ritorna sul ring circondato da migliaia di spettatori, seguendo così il protagonista, Rick Santoro (Nicolas Cage), senza perdere per un solo secondo le sue reazioni.
7. Le fasi della realizzazione di un film
Comunemente si pensa che l’unico autore del film sia il regista. Tuttavia, anche se la regia è fondamentale, alla buona riuscita di una pellicola contribuiscono quattro altre figure: lo sceneggiatore, il regista, il fotografo e il montatore. Tenendo conto di questi ruoli, le fasi principali della realizzazione di un film sono le seguenti:
Il soggetto. Il soggetto è la prima fase di ideazione di un futuro film.Consiste di un breve racconto di alcune pagine, in cui si stabilisce il tema di cui si intende parlare. Può derivare da un’opera letteraria, musicale o teatrale, da un fatto storico o di cronaca, o dalla fantasia di un autore che lo ha scritto appositamente per l’utilizzazione cinematografica.
La sceneggiatura. La sceneggiatura è un’ulteriore fase di realizzazione del film. Contiene il testo nella sua forma definitiva. Di solito si hanno due versioni della sceneggiatura. Nella prima, lo sceneggiatore definisce in modo completo l’intreccio, i personaggi, i dialoghi, i luoghi e le scene. La seconda versione, che si usa sul set, contiene anche notazioni tecniche riguardanti i piani, i campi e i movimenti di macchina.
La regia. Il regista svolge l’attività centrale di coordinamento e di direzione di un film. Nel cinema americano, tuttavia, fino agli anni Quaranta, quando il cinema standardizza i suoi prodotti e introduce una rigorosa divisione del lavoro, il regista si limita alla direzione degli attori: riceve dagli sceneggiatori un copione già definitivo e consegna al montatore il materiale girato. Il regista non è l’unico autore del film, ma è piuttosto un direttore di scena. Solo con l’avvento del cosiddetto “cinema d’autore”, sviluppatosi dal 1945, prima in Europa e poi in America, il regista imprime maggiormente la sua impronta nel film ed esprime con uno stile originale la propria visione del mondo. Ma accanto a registi di questo tipo, esistono ancora oggi directors che si limitano a dirigere il set e a mettere in scena una storia che è loro richiesta e commissionata.
La fotografia. Il direttore della fotografia è il braccio destro del regista. Deve scegliere la pellicola, impostare l’apertura dell’obiettivo della m.d.p. e illuminare la scena. L’illuminazione contribuisce all’atmosfera di un film, perché dà senso ed espressione alle immagini.
Il montaggio. Dopo che le riprese sono state ultimate, il montaggio è una delle fasi più importanti della post-produzione. Implica la scelta e il collegamento delle varie inquadrature, per dare un ordine logico alla storia filmata. L’operazione si svolge in
moviola o con attrezzature informatiche e consiste nel tagliare e nell’incollare gli spezzoni della pellicola.
Esistono vari tipi di montaggio. Indichiamo qui i principali:
1. Montaggio per stacco. Il montaggio per stacco consiste in un passaggio immediato, brusco, da un’inquadratura all’altra.
2. Montaggio per dissolvenza. Il montaggio per dissolvenza si ha quando l’immagine scompare più o meno lentamente, fino al campo buio. Questa è la dissolvenza in chiusura. Il procedimento inverso – dal buio all’immagine – si chiama dissolvenza in apertura. La dissolvenza incrociata è invece il procedimento per cui un’inquadratura si trasforma gradualmente in un’altra.
3. Montaggio alternato. Il montaggio alternato consiste nel far succedere sullo schermo inquadrature di due azioni simultanee, ma ambientate in luoghi differenti, alternate l’una all’altra. Un incalzante montaggio alternato è proposto nel film di Fred Zinnemann Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952) per sottolineare l’attesa spasmodica del treno con il quale arriverà il bandito destinato a scontrarsi con il protagonista della pellicola.
4. Montaggio parallelo. Il montaggio parallelo accosta due eventi non contemporanei fra loro. In questo caso, il parallelismo è di tipo intellettuale e non cronologico, come accade, invece, nel montaggio alternato. Il montaggio parallelo descrive due diverse serie di eventi per suggerire somiglianza o contrasto tra le rispettive situazioni e i personaggi.
5. Montaggio rapido. Il montaggio rapido consiste nel frammentare la scena in una serie di numerose brevissime inquadrature, senza dare una visione dell’insieme. Celeberrima è la sequenza dell’omicidio sotto la doccia in Psyco (Psycho, 1960) di Alfred Hitchcock, frammentata in ben quaranta inquadrature, che si susseguono vorticosamente creando un effetto di straordinaria intensità drammatica.
6. Campo/controcampo. Il campo è lo spazio inquadrato dalla m.d.p., mentre il controcampo è lo spazio opposto a esso, a 180°. Il passaggio dal campo al controcampo viene comunemente usato per rappresentare una conversazione fra due persone, una di fronte all’altra. La m. d. p. inquadra prima una delle due persone (campo), e poi si sposta (per stacco) sulla seconda (controcampo).