“Black Widow: salvare il mondo? Roba da donne”
Recensione di Giacomo Mininni
La Vedova Nera di Scarlett Johansson è uno dei personaggi principali del Marvel Cinematic Universe – l’universo narrativo condiviso dai film Marvel – fin dall’Iron Man 2 del 2010, ma una produzione dubbiosa delle potenzialità di una donna protagonista di un film di supereroi l’ha sempre relegata al ruolo di comprimaria. Finalmente, dopo il successo di Captain Marvel e del rivale della DC Comics Wonder Woman, anche la Vedova diventa protagonista di un film tutto suo, che da subito si impone per toni e temi molto più maturi di quanto fosse lecito aspettarsi.
Dopo un flashback ambientato negli anni Novanta, Black Widow racconta le gesta di Natasha Romanov tra Captain America: Civil War e Avengers: Infinity War, seguendo la super-spia alle prese con una minaccia proveniente dal proprio passato, la rinata Stanza Rossa, progetto segreto che trasforma bambine in spietate assassine. Tra inseguimenti mozzafiato, coreografie curatissime ed effetti speciali allo stato dell’arte, il film adotta lo stile brutale e crudo degli ultimi film spionistici, specie Red Sparrow di Francis Lawrence, ma si distingue anche per un approccio decisamente più intimista dei suoi predecessori, focalizzato fin da subito su una famiglia fieramente disfunzionale, che bene incarna il celebre adagio di Tolstoj. Cate Shortland, però, pur essendo costretta negli ovvi limiti creativi imposti dal maggiore franchise del cinema contemporaneo, fa propria e personalissima una sfida che va ben al di là delle mura domestiche, e interroga se stessa e il proprio pubblico sul ruolo, e soprattutto l’immagine, della donna in contesti di potere e di rappresentanza.
Significativo diventa allora il villain Dreykov, terribilmente normale, privo di super-poteri o di eserciti alieni, eppure viscido e ributtante, che Ray Winstone, per mettere le cose in chiaro, modella abilmente sulla fisicità e sulle movenze di Harvey Weinstein. Un padre-padrone-mostro, Dreykov si fa interprete di un patriarcato tossico che tratta le donne come risorsa naturale, al pari dell’oro o del petrolio, da usare e abusare a piacimento, in una disumana operazione che lui stesso definisce «riciclare la spazzatura». A questo uomo-simbolo si contrappongono, senza troppi eccessi di retorica, le protagoniste Scarlett Johansson e Florence Pugh, che attraverso la semplice presenza, attraverso l’auto-valorizzazione e consapevolezza di sé, lottano per una famiglia il meno disfunzionale possibile, fatta di affetti reali
invece che di posizioni di potere e di abusi fisici e psicologici, coinvolgendo anche la riluttante Rachel Weisz, schiava di un sistema che l’ha plasmata, le altre Vedove Nere ancora soggiogate, e perfino la cattiva Taskmaster di Olga Kurylenko, che pur mantenendo l’invincibilità della controparte (maschio) a fumetti, si rivela tragicamente fragile dietro l’impenetrabile armatura.
Camminando sulle uova su un tema che normalmente a Hollywood è svenduto in modaioli pink-washing, Black Widow si rivela un film indubbiamente popolare, ma anche inaspettatamente potente nella propria simbologia, in una storia di liberazione che va oltre lo schermo, e che lancia un guanto di sfida ai vari padri-padroni ancora attanagliati alle proprie poltrone e nella propria misoginia. Tutto sommato, valeva la pena aspettare così tanto per il ritorno dei supereroi al cinema.
BLACK WIDOW
di Cate Shortland. Con Scarlett Johansson, Florence Pugh, David Harbour, Rachel Weisz. USA, 2021. Azione.
Toscana Oggi, edizione del 18/07/2021