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DON MILANI Secolo XIX 7_5_76

lì priore di Barbiana, il «pre­te scomodo» don Milani, dal­la fine degli anniQuaranta al 1967, anno della morte, ha le­vato dal Mugello la sua voce contro l’ingiustizia sociale, organizzando il suo pensiero for­temente impregnato di laici­smo e di intransigenza morale (ereditata forse dalla madre ebrea) in un volume, «Esperien­ze pastorali» (1958), prepoten­temente rinnovatore, e poi nel­la pratica didattica della scuola di Barbiana, un insegnamento a tempo pieno tra i giova­ni contadini toscani.

La sua storia è proposta qui non co­me esibizione di un patrimonio religioso – politico documenta­rio (il recente «Un prete sco­modo». con Enrico Maria Sa­lerno) , ma come ricostruzio­ne biografica, di respiro quasi rosselliniano, di un’intelligenza attraverso il filtro di un’e­sperienza umana, in cui il cri­stianesimo è sempre in stretto contatto con la ragione prati­ca della vita civile e sociale. Edoardo Torricella, regista e attore (ora Paolo di Tarso ne­gli «Atti degli Apostoli» di Rossellini) riempie la sua inter­pretazione di Don Milani di rabbia e insieme di slancio etico: emergono tutti gli elementi necessari per., fuggire le ta­gliole dell’agiografia e risaltò particolare assumono il capar­bio volontarismo del prete,  il suo profondo legame con l’eser­cizio sacramentale il superamento umanistico del rigido schematismo ideologico pacelliano e stalinista degli anni ‘Cinquanta, l’attaccamento quasi nevrotico ai «suoi ragazzi» ai contadini e operai respinti dalla cultura tradizionale e dal­la scuola dell’obbligo.

Il richiamo alla natura, alla terra, alla semplicità originaria contrapposta all’aridità della vita cittadina (e che lo spin­ge. nel suo interesse costante per la gioventù, ad alcune in­tuizioni sociolinguistiche che influenzeranno anche la succes­siva elaborazione sul problema del «diritto allo studio») sono trattate da Angeli senza boz­zettismo né macchiettismo, e si tengono fuori anche da quel gusto calligrafico piuttosto sterile che caratterizza buona par­te delle opere dei giovani re­gisti legati alle produzioni «Italnoleggio».

L’operazione di «Don Mila­ni» è senza dubbio una delle più riuscite tra quelle del vi­vaio cinematografico di Stato e non pecca mai di intellettua­lismo, ponendo il problema di una militanza intellettuale Sot­to il segno di una concretezza e di una quotidianità che ri­fiuta le fumisterie intellettuali e altrettanto un facile gioco spettacolare, che avrebbe po­tuto agire su una caratterizza­zione esasperata dei tipi con­tadini, abbastanza frequente nel cinema italiano, e che An­geli rifiuta del tutto. Il regi­sta invece si interessa soprat­tutto di sviluppare la persona­lità di un uomo pubblico e dei suoi rapporti: quasi intolleran­te nella sua rigida pratica pe­dagogica — per sua stessa am­missione —, abbastanza argu­to nel trattare con i superiori e le istituzioni, ingenuo nella sua necessità di confronto e di comprensione (evidenziata nei due interventi integrati nella finzione, di Gaetano Arfè e dello scolopio Ernesto Balducci). Forse è questa, come per il bistrattato e straordinario «Anno uno» di Rossellini, la via più seria e vitale per fare del cinema d’impegno civile e storico in Italia. 

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