Don Milani – Un prete scomodo – Cinemasessanta Italo Moscati
Chi era Don Milani? Due film hanno tentato di fornire una risposta a questa domanda. I film sono: « Un prete scomodo » di Pino Tosini, e « Don Milani » di Ivan Angeli. I due film hanno caratteristiche diverse, anche se basati su documenti esistenti: né dall’uno, né dall’altro, però, è venuta una risposta convincente.
Chi è don Milani? La domanda acquista oggi un senso particolare perché la risposta data da due film non convince. È, anzi, questa mancata risposta a far sì che sembri opportuno porre la domanda. Che, peraltro, non è nuova e ha accompagnato praticamente tutta l’ultima parte della vita del sacerdote e, naturalmente, anche dopo. I film sono di Pino Tosini e Ivan Angeli, con questi titoli rispettivamente: Un prete scomodo e Don Milani, prodotto dallitalnoleggio. Hanno caratteristiche diverse, anche se si rifanno ai documenti esistenti e soprattutto agli scritti dello stesso don Milani. Il primo abbraccia praticamente tutta la vita del sacerdote scomodo per le gerarchie e per il conformismo cattolico. Il secondo si limita ad illustrarne alcuni aspetti, nella seconda parte della vita, fino alla morte.
Già da qui è possibile rinvenire una differenza. Tosini cerca in qualche misura di storicizzare la vicenda di don Milani, abbinando alla rievocazione biografica un riferimento puntuale alla realtà del tempo in cui visse. Non mancano, addirittura, degli « inserti » per rimarcare una stretta dipendenza degli atteggiamenti del prete in relazione agli avvenimenti. Ad esempio, il tema della guerra è più volte indicato e serve per far nascere nello spettatore l’idea di una reazione « morale » del prete verso la violenza dell’uomo contro l’uomo. Ma questo accostamento fornisce di per se stesso un primo elemento da sottoporre a critica. Questo tipo di storicizzazione salta i nodi politici e ideologici per collocarsi in una dimensione morale che, nel film, a causa dell’uso fattone dal regista, diventa moralistica, poiché la condanna della violenza è forte ma anche generica, è decisa ma riguarda comunque il problema della incomprensione tra gli uomini, della necessità di superarla e di un incontro alla fine del dialogo, cioè esprime un commento sulla bontà cristiana di don Milani piuttosto che una sua autentica, diretta riflessione sulla storia, e una sua certo più complessa comprensione delle cose e del loro andamento.
Non che la religiosità non implichi una « strutturale » avversione alla violenza di qualunque natura essa sia, anzi è proprio in questo dato « strutturale » che la religiosità trova la capacità spesso di vedere al di là del contingente e del pregiudizio, ma è pur vero che il non precisare e il lasciare nell’indeterminato contribuisce a creare un clima di astrattezza predicatoria che annulla in concreto la posizione di don Milani rispetto a quella « al di sopra della mischia » di tanti preti, spesso guerrafondai (la polemica di don Milani contro i cappellani militari e la loro « ideologia » avrebbe dovuto far pensare). Non è, tuttavia, questo il difetto principale del film, che si avvale di una sceneggiatura di Luciano Lucignani molto vicina ai testi e fin troppo preoccupata di rifarli, al punto che si ha l’impressione di una sorta di tentativo di scavo archeologico in una memoria invece che di una opportunità colta in tutti i potenziali spunti.
Il difetto principale consiste nella immagine complessiva che viene offerta del priore di Barbiana. Lo si mostra sempre con la lacrima pronta sotto le ciglia, con le mani stropicciate l’una contro l’altra per l’ansia e per la commozione, con i passi brevi e secchi di chi non si sa dominare e fa trasparire un rovello profondo che cerca solo uno sbocco. Nei contatti con la gente semplice è dipinto come impregnato fortemente di un inconsapevole-chissà-paternalismo che gli fa usare diminutivi e aggettivi con un pizzico di ambigua maliziosità premurosamente protettiva. Nei contatti con la gente « importante » è descritto invece con una conscia fierezza che lo fa diventare una « vittima » costante di « carnefici » spietati e ingiusti, e non chiaramente motivati da precise opportunità, come appunto accadeva (le autorità ecclesiastiche non lo odiavano, lo sapevano nemico e basta).
Da una parte, insomma, un piagnone, intento a organizzare e a far studiare i suoi ragazzi; dall’altra, un candidato ad un inevitabile martirio per l’orgoglio con il quale sosteneva le sue tesi e le sue azioni, quasi però con la « voluttà » di risultare perdente. In una presa, tanto appiccicosa e schematica (i personaggi di contorno sono pure comparse che non sanno esprimere « l’altra parte » con la relativa durezza e insensibilità), la figura di don Milani viene travolta, nonostante che la rievocazione proceda in una scelta abbastanza corretta — anche se convenzionale — dei fatti che lo chiamarono in causa: in primo luogo, l’attività alla scuola di Barbiana con i ragazzi poveri che voleva assolutamente sottrarre al mondo e alla buona educazione dei « pierini », come dimostra la famosa « Lettera ad una professoressa ». Una grossa responsabilità spetta ad Enrico Maria Salerno che ha assecondato e, forse forzato, il regista nella tendenza all’immagine commovente anche se non edificante, suadente anche se non edulcorata. La vita di don Milani diventa, in definitiva, un « bell’album » di foto e di sequenze commemorative, destinate ad un consumo riduttivo e convenzionale.
Il film di Ivan Angeli, protagonista un poco convinto Edoardo Torricella, è stato realizzato con una povertà di mezzi e con una linearità di sceneggiatura che possono trarre in inganno. E infatti alcuni critici ci sono caduti, scambiando per voluta naturalezza una approssimatività sia nelle riprese che nel montaggio, oltre che nella impostazione del racconto. Qui la storicizzazione è pressoché assente, si preferisce indugiare sul lato umano, presentando un don Milani più dimesso e introverso. Anzi, è proprio la introversione la chiave che viene in evidenza, appena corretta dall’inserimento di alcune personalità — tra le quali La Pira, non ancora entrato in lista nella De — che conobbero direttamente il prete scomodo. Don Milani sembra pili che altro un maestrino di campagna che si arrovella e si tormenta, cancellando gli affanni sotto un timido sorriso. Il suo volto si accende e si trasforma soprattutto quando testimonia la sua fede e quando dice alcune verità agli intellettuali cattolici e ai comunisti, con i quali marcò sempre una differenziazione, considerando i primi strumentalizzatori e sostanzialmente inutili in quanto borghesi (e non si può dire che non avesse ragione in molti casi), e sostanzialmente entrando in competizione umana e ideale con i secondi: discuteva con loro, li incontrava, ma non cessava mai di rimproverarli con dolce asprezza o di metterli in guardia (una dialettica che il regista avrebbe dovuto chiarire dedicandovi più attenzione) .
Emerge qui il problema dell’integralismo. Don Milani non fu integralista, cercando sempre il dialogo e la collaborazione. Ma la sua convinta adesione al Vangelo e la sua fede lo portavano, com’è ovvio, a privilegiare la sua scelta, magari facendogli assumere una intransigenza senza dubbi e senza ripensamenti. Anche questo secondo film non si pronuncia in proposito e non entra nel merito, limitandosi a bordeggiare i fatti, alcuni fatti, e sforzandosi di salvare la figura del prete nella sua interezza, o « integralità ». Ed ecco come è possibile accusare i due registi e i due film di « integralismo », cioè di aver voluto realizzare cinematograficamente l’immaginetta di un santo, certo di un santo di oggi che si innesta in quell’anticonformismo, in quella disubbidienza, in quel dissenso che hanno trasformato il volto del cattolicesimo e dei credenti in Italia.
Don Milani, secondo il parere che ho ricavato dai libri suoi e su di lui, dalle notizie e dalle testimonianze che ho raccolto in chi aveva conosciuto, non era un santo, neanche di sinistra, o meglio del cattolicesimo di sinistra, era un prete che tentava di correggere la vicenda umanamente e spiritualmente tragica di un « povero » prete di campagna cosi intensamente illustrata da Bernanos nel romanzo che Bresson traspose in film, Diario di un parroco di campagna. Era una correzione dettata dalla profonda, intima e « tragica » coscienza della gravità dei processi di esclusione operata dalla borghesia.
Il parroco di Bernanos e Bresson soffriva sulla pelle la « propria » esclusione; don Milani sentiva sulla sua pelle la esclusione « degli altri », in particolare quella della campagna e dei giovani di campagna, destinati ad essere inghiottiti dalla industrializzazione e dall’incremento della urbanizzazione. Se la sua era principalmente una azione di fede, ciò non toglie che le radici fossero incardinate nella realtà sociale.
Non è questa una facile interpretazione di tipo sociologico. Al contrario, la sociologia non c’entra quasi per niente. Don Milani aveva la intenzione di fare della sua vita un’opera e non viceversa; vale a dire era — a mio giudizio, sulla scorta delle letture fatte, ripeto — un intellettuale che adoperava la sua cultura per l’emancipazione di quanti poteva raggiungere. È interessante ricordare che don Milani si è sempre concentrato su piccoli gruppi di ragazzi. E non solo perché i provvedimenti punitivi della gerarchia lo portavano lontano, nella « periferia » dell’Italia; ma anche perché, in queste situazioni, poteva maturare una valutazione concreta, immediata, dei bisogni e quindi della possibilità di « amare » pochi giovani rispetto al mondo. Questo rapporto con la immediatezza, tuttavia, provocava una saldatura tra la personale esclusione e quella riscontrata nelle campagne, nei lontani borghi della montagna. Ne scaturiva una lucidità estrema e una cura attenta nel riflettere sulle esperienze compiute per renderle esemplari. Un lavoro da intellettuale isolato, pronto a sollevare questioni di grande rilievo (come il diritto alla non violenza), ma « poco politico » se alla politica si deve riconoscere una capacità di proiezione e di organizzazione delle « masse ».
La componente individuale, e comunque non individualistica, è forse quella che ha colpito e sedotto le giovani generazioni nel Sessantotto e anche prima: don Milani, con la « Lettera ad una professoressa » scritta in collettivo, è diventato un punto di riferimento per gli studenti impegnati a trasportare fuori dalla scuola la loro protesta contro la borghesia. Ciò in nome di un radicalismo cristiano autonomamente in grado di « uscire » dal dibattito politico e culturale istituzionale con un richiamo specifico ad una sorta di « allargamento della coscienza », ma bisognoso di un linguaggio « credibile » per esprimersi, ed ecco l’uso del lessico marxista e quindi, successivamente, delle sue categorie di analisi. Nell’« allargamento » verso le classi emarginate e sfruttate, nella « marcia » della persona verso i propri simili che soffrono, è possibile rinvenire il fascino esercitato dal priore di Barbiana.
Niente di appiccicoso e clericale, niente di graduale e di solidaristico, nessun compiacimento apostolico. Ma una proposta, o meglio una ri-proposta culturale del Vangelo, e una critica della Chiesa come mondo chiuso a favore di una Chiesa che si apre al mondo e soprattutto verso chi ha bisogno. Un « allargamento » per capire meglio il mondo e avviare lenti processi di soluzione. Una rivoluzione nella profondità, con una intransigenza che lascia intravedere, da un lato, la polemica contro il « piano » della borghesia di servirsi di tutto, e in particolare della cultura, per protrarre la sua egemonia; e dall’altro lato, una sfiducia nella politica minacciata dalla burocratizzazione. Nei due film la biografia, starei per dire l’agiografia, si mangia queste problematiche e non sviluppa alcun tentativo di interpretazione seria. Non voglio sostenere che i registi avrebbero dovuto fare da « critici » di don Milani e del suo pensiero ma soltanto ricordare che non basta toccare alcuni nodi e privilegiare gli aspetti più toccanti e, perché no?, edificanti per soddisfare l’obiettiva richiesta di conoscere da vicino le vicende di un prete scomodo e, purtroppo, incompreso dal cinema.
Italo Moscati