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Cinema e Giubileo:
alcuni titoli per l’Anno Santo

Il tema del viaggio

di Marco Vanelli

L’armata Brancaleone è una rivisitazione grottesca di un medioevo barbarico per parlare indirettamente di attualità e della storia recente, come il fascismo; un modo per dire che i vizi, le ambizioni, le contraddizioni e i fanatismi dei nostri progenitori non erano poi tanto diversi da quelli del Novecento. Si pensi al doppio senso che acquista l’appellativo “duca” con cui viene chiamato spesso Brancaleone, alla guida di disperati in cerca di gloria, simili ai seguaci di Mussolini che si faceva chiamare “duce”.

Rispetto al nostro tema il film offre una cinica parodia dei pellegrinaggi penitenziali in Terra Santa.

In quei penitenti si imbattono anche i nostri cavalieri erranti, condividendo con loro un tratto di strada. L’accentuazione dei toni comici non impedisce a noi spettatori di oggi di scoprire certi aspetti significativi nel nostro studio del pellegrinaggio. Tra una devozione fanatica e folcloristica e un autentico desiderio di “uscire dalla propria terra” per andare incontro al Signore, gli spettatori possono verificare in qual modo si collocano, quale sia il proprio itinerario spirituale prima ancora che geografico. Al film fece seguito Brancaleone alle crociate (1970) dove l’arrivo in Terra Santa diventa, purtroppo, l’occasione per scontri sanguinosi con gli infedeli più che un’occasione di conversione e di comprensione.

Ambientato nella settimana santa del 926, attraverso un gruppo di personaggi disparati, ma emblematici delle varie categorie umane e sociali del periodo, Magnificat è un ritratto spietato dei vari modi di avvicinarsi al mistero della salvezza portata da Cristo: da quelli più autenticamente spirituali a quelli superstiziosi e ancora pagani.

Come recita la voce narrante ci troviamo in un tempo e in un mondo tremendi, barbarici, dove la fede in Dio si confonde con la paura e il bisogno di espiazione. Il santuario della Visitazione di Màlfole diventa il traguardo di pellegrinaggi diversi, un luogo dove si nasce o si va a morire, dove si cerca una risposta ai propri dubbi o la pace per la propria anima.

Modello del pellegrino è soprattutto Maria, pronta a mettersi in viaggio per visitare Elisabetta e restare al suo servizio. E a Maria scopriremo assomigliare l’anima più pura di tutte, quella della bambina che entra in convento e lascia la famiglia.

È una vita in cammino quella che rappresenta Pupi Avati, dove tutti – servi, principi, religiosi, giustizieri, mendicanti – vivono sulla strada, proprio come in tanti film “on the road” degli anni Settanta.

Il regista – da sempre interessato al magico e all’occulto – qui rinuncia a raccontare un medioevo fantastico e leggendario, ma sposa un linguaggio fresco e realistico, quasi minimale, per darci tutto il senso del quotidiano di un’epoca, sì, oscura, ma anche profondamente religiosa.

La via lattea – Buñuel non ha bisogno di presentazioni: è uno dei maestri della storia del cinema, esponente massimo della corrente surrealista nel campo cinematografico, uno dei più profondi e geniali inventori di immagini e storie. Il suo paradosso famoso: «Io – grazie a Dio – sono ateo», compare ormai stampato sulle magliette, e rappresenta nella sua contraddizione irriverente tutto lo spirito dell’opera di questo autore. Un’opera volta a rivelare l’assurdità della vita, in una visione iconoclasta e refrattaria a tutti i dogmatismi, compresi quelli illuministici e scientifici.

Col Cattolicesimo Buñuel ha un rapporto ambivalente: formatosi dai gesuiti nella Spagna dei primi del Ventesimo secolo, matura una ribellione verso ogni forma di istituzione religiosa e politica. Ma il suo anarchismo culturale – che lo porterà negli anni Venti a far parte del movimento surrealista francesi guidato da André Breton – non gli impedirà di continuare a interrogarsi sul senso della fede cristiana e di indagare sui motivi dell’esperienza religiosa. Se da una parte nei suoi film troviamo un accanimento anticlericale (dissacrante, ma divertente) che percorre tutta la sua opera (1929-1977), dall’altra è fortissimo il richiamo al mistero di Dio e al rimpianto per un Cristianesimo puro, non compromesso col potere.

La via lattea prende il titolo dal nome dato alla strada che attraversa Francia e Spagna, percorsa dai pellegrini verso San Giacomo di Compostela (CAMPUS STELLÆ=via lattea). Su questo storico pellegrinaggio i due protagonisti del film, barboni del giorno d’oggi, si imbattono in personaggi storici legati alle varie eresie che hanno punteggiato la storia della chiesa. Ogni tanto incontrano anche Gesù con gli apostoli, un Gesù rappresentato come nei santini, che predica fedelmente le parole del vangelo, scelte però nelle loro parti più “contraddittorie”.Un film, quindi, ricco di temi e di non facile lettura, ma che può dare agli spettatori una salutare scossa intellettuale e spirituale attraverso un linguaggio autenticamente artistico. Al termine del pellegrinaggio Buñuel pone una sequenza che è forse la più alta espressione cinematografica di cosa significa aver fede nel Cristo e come la vita intera possa essere un pellegrinaggio verso la casa del Padre, senza dimenticare chi invece quella fede non ce l’ha.

L’uomo che piantava gli alberi – Il breve film d’animazione (30′) è tratto dal racconto omonimo dello scrittore francese, pacifista e ambientalista, Jean Giono. Il testo viene letto integralmente da una voce fuori campo. I disegni animati illustrano, spiegano o contrappuntano la vicenda narrata e noi assistiamo a una perfetta integrazione tra il testo letterario e l’apparato audiovisivo, in una sintesi filmica che è qualcosa di linguisticamente nuovo e efficace.

La storia è quella autobio­grafica dello scrittore che per quattro volte, in periodi di­versi della sua vita, incontra un misterioso e solitario montanaro dal nome Elzéar Bouffier. Questi, nella più assoluta solitudine e senza alcun tornaconto, dedica la sua vita a piantare querce e faggi in una regione abban­donata e disboscata delle Alpi Marittime. Il tutto nel più assoluto nascondimento, all’insaputa delle autorità e degli abitanti che credono trattarsi di un fenomeno naturale. Solo l’autore conosce la verità, e la racconta dopo la morte di Bouffier, avvenuta in un ospizio nel 1953, in solitudine, coerentemente alla vita condotta. Le ultime parole del racconto spiegano bene l’arricchimento che Giono ha ricevuto da questa vicenda minimale, ma dal sapore spirituale e redentivo. Non a caso i richiami biblici o evangelici nel testo sono frequenti: Bouffier è preso a emblema dell’uomo che partecipa alla creazione del mondo, conti­nuando il lavoro iniziato da Dio, a dispetto di tutte le forze distruttrici che da ogni parte e in ogni tempo la minacciano. Egli spende la propria vita do­nando vita agli altri; dal suo esempio totalmente umano, ma dalle ca­ratteristiche divine, il narratore trae occasione per riflettere sul si­gnificato dell’esistenza.

I viaggi che il narratore fa per andare a incontrare Bouffier diventano altrettanti pellegrinaggi di chi cerca senso per la propria vita e trova un modello umanistico che ha tutte le caratteristiche messianiche nella riservatezza e nell’umiltà.

Still Life è realizzato con uno stile assai sobrio, che nulla concede all’emozionalità dello spettatore, ma lo conduce alla scoperta dei valori che vivono nascosti nell’esistenza di esseri apparentemente insignificanti come John May, un impiegato londinese incaricato di rintracciare eventuali parenti di persone morte in solitudine e in povertà. Il protagonista è un ometto grigio, metodico, barricato dentro i suoi rituali professionali, invisibile al mondo, silenzioso e inespressivo, ma che ha saputo dare un senso alla propria vita donandola agli ultimi tra gli ultimi: quei morti abbandonati a se stessi di cui solo lui sembra provare compassione. Raccoglie i loro oggetti più cari, le lettere, le poche testimonianze di una vita di cui a nessuno (compreso chi celebra i funerali) importa più nulla e con amore e dedizione cerca di dar loro un ultimo saluto degno. Un giorno il suo incarico viene cancellato dall’organico comunale perché ritenuto improduttivo e la sua vita subisce un comprensibile scossone.

Prima, però, John vuole portare a termine la sua ultima ricerca grazie alla quale viene in contatto con altri ambienti e altre possibilità di vita. Nel finale davvero toccante come spettatori ci ritroviamo a provare per lui una riconoscenza vera come per tutti coloro che nascostamente operano per il bene dell’umanità, che incarnano l’azione misteriosa della Grazia pervicacemente volta a restituire dignità al volto dell’uomo. Still Life un film che ci riconcilia con il senso della vita, ci fa uscire migliori dal cinema perché possiede la limpidezza di una parabola evangelica espressa in un perfetto stile cinematografico che raggiunge i livelli dell’arte.

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