Articolo di “Repubblica” in occasione della presentazione del libro “NUOVI CINEMA PARADISO” , ricerca dei professori Alberto Bourlot e Mariagrazia Franchi dell’università Cattolica di Milano sullo stato delle sale della comunità in Italia.
di CORRADO ZUNINO
Roma. Come no, si proietta ancora “Maciste contro i mostri” (1962, i primi trucchi di Carlo Rambaldi). Pure “Arrivano i Titani” (I960, questo con Giuliano Gemma, storie di re di Creta e dei, il mito dell’invulnerabilità). Poi i film esistenziali di Ingmar Bergman, l’umorismo rocambo-le di Louis de Funès, ovviamente il “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli e, meno ovviamente, “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Pàolo Pasolini. Raramente si vede una prima visione. Comunque mai violenta, mai hard. Sì, i cinema parrocchiali sono ancora tra noi, dopo cent’anni di vita/Crescono e promuovono cultura cinematografica. Medicano periferie urbane dimenticate da tutto il resto e anche la provincia lasciata per ragioni di mercato da major e grande distribuzione.
Ora si chiamano Sale della comunità e una ricerca dell’Università Cattolica racconta che sono-presenti in tutta Italia nel numero non banale di 804 (censimento 2016 dell’Associazione cattolica esercenti cinema). Risalta, il numero, se confrontato con i cinema “laici” viventi: l’ultimo dato Cinetel-Siae segnala infatti 1.202 strutture (e oltre 3.400 schermi) per il comparto commerciale. Ecco, ogni tre sale cinematografiche, in Italia, ce ne sono due parrocchiali. Lo stesso rapporto che c’era negli Anni Sessanta quando l’inizio dell’affermazione della televisione segnò anche l’inizio della crisi del cinema. E se le sale commerciali negli ultimi decenni conoscono una lenta e progressiva contrazione, i “parrocchiali” invece crescono.
Le sale della comunità sono, da sempre, collocate al Nord. In particolare tra Lombardia, Piemonte e Liguria: sei su dieci vivono qui. Negli ultimi dieci anni, però, stanno crescendo al Centro e al Sud. La collocazione territoriale spiega anche le due funzioni centrali della sala di parrocchia. Innanzitutto, la necessità di socialità in provincia: l’86 per cento -dei cinema resiste in realtà sotto i centomila abitanti. E nelle città sopra i centomila, il 65 per cento delle sale è in periferia. «Riempiono un vuoto esistente», dicono i ricercatori della Cattolica.
Più della metà delle Sale della comunità sono sopravvissute alla fase di contrazione dell’esercizio cinematografico degli Anni Ottanta, molte hanno riaperto seguendo una nota pastorale del 1999 che spingeva sulla funzione educativa del mezzo. Il sette per cento è attivo da oltre ottant’anni. Tra queste, il Cineteatro Moderno di Castel Bolognese, il Silvio Pellico di Saronno (Varese), il Sant’Andrea e il San Filippo Neri di Novara e Alessandria, il Cinema delle Provincie di Roma. «In questi anni ho partecipato a celebrazioni per un secolo di vita di alcune sale», spiega Francesco Giraldo, presidente dell’Acec.
La maggior parte dei cinema parrocchiali tutt’oggi è monoschermo, ma altra sorpresa — ci sono multisala della comunità e persino multiplex (oltre sette schermi). E i gestori dei cinema parrocchiali — più laici che religiosi, spesso pensionati o impiegati — ritengono la struttura «economicamente reddituale». Il prezzo dei biglietto viaggia tra 5 e 7 euro.
Mariagrazia Fanchi, uno dei due autori della ricerca, dice: «Agli inizi degli Anni ’90, con i multiplex che crescevano nei centri commerciali delle città come funghi e proiettavano solo film americani, i cinema parrocchiali avevano una certezza: ci faranno chiudere. Le cose sono andate diversamente e il digitale è stato decisivo. Grazie ai bandi regionali per la digitalizzazione degli schermi queste sale hanno trovato finanziamenti che diversa- mente non avrebbero mai reperito».
Il momento è felice: la Nuova Legge Cinema riordina il settore e prevede un piano straordinario che garantirà 120 milioni di euro in cinque anni. Per riattivare le sale chiuse e aprirne di nuove.
IL REGISTA
Luca Miniero “Il piccolo spazio aggrega la gente”
ARIANNA FINOS
ROMA. Per Luca Miniero la grande tenuta dei cinema parrocchia- li «è una bella notizia e un indicatore importante, anche per le altre sale». In Benvenuti al Sud e Non c’è più religione il regista ha raccontato l’Italia dei paesi.
Come spiega il rilancio delle Sale di comunità?
«Come nelle librerie, in queste realtà funziona il passaparola: sono spazi che soddisfano, più di altri, il desiderio di socialità. Nei paesi la gente non sta chiusa in salotto a guardare i film, preferisce andare al cinema, non necessariamente in prima visione. Questo tipo di sala, forse anche per il prezzo più basso, diventa un luogo di aggregazione».
Funziona anche una selezione attenta dei film?
«Lo so per certo. C’è una conoscenza diretta delle persone e della materia: chi programma sa quali sono i film che piaceranno alla comunità che agisce su quel territorio. Come una volta i librai avevano letto tutti i libri del negozio. In un mondo globalizzato e impersonale queste realtà hanno riscoperto canali più diretti. E non si tratta di film necessariamente religiosi, sono quelli rivolti alle famiglie».
Perché sono un indicatore importante?
«Raccontano di come i multiplex e i Luca Miniero cinema delle grandi città presi dalla grande programmazione non vanno nella giusta direzione. Qualche club cerca di creare in rete un gruppo di affezionati, ma le strade da tentare sono il recupero del contatto con il territorio e la multifunzionalità. Ho una casa in campagna a Piobbico, Appennino marchigiano: nel mio paese il cinema ha chiuso, quello della vicina Apecchio resiste, ma è a quaranta chilometri: scommettere su ima sala polifunzionale potrebbe essere la soluzione».
Quanto è stato importante l’investimento della tecnologia?
«I cinema che hanno superato lo scoglio della digitalizzazione oggi conoscono un rilancio, anche perché i costi di mantenimento sono più bassi rispetto alla pellicola E i film avranno sempre bisogno del pubblico in sala».