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MANK
di Marco Vanelli

“Mank” è l’abbreviazione di Mankiewicz, nello specifico Herman J., di professione sceneggiatore nella Hollywood dei tempi d’oro. Suo fratello Joseph L. è stato invece regista (Eva contro Eva). Perché dedicare un film al meno noto tra i due? Cosa ha fatto di tanto importante da smuovere l’interesse di David Fincher (regista di Seven e Fight Club)? Il motivo è che tra le tante collaborazioni di Mank (molte delle quali non firmate) c’è anche Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, praticamente il più bel film di tutti i tempi. E l’unico Oscar che quel capolavoro vinse fu proprio per la sceneggiatura, firmata da Welles e da Mankiewicz. Ma chi la scrisse veramente?

Si tratta di una vexata quaestio, con i due interessati pronti a rivendicare la paternità dello script. Perché Quarto potere non è stato solo innovativo per le modalità di ripresa e le soluzioni registiche, ma anche per l’impianto narrativo con cui racconta la parabola di Charles Foster Kane, magnate della stampa e aspirante governatore, utilizzando vari punti di vista fra loro discordanti senza giungere a una verità univoca sulla sua vita.

David Fincher, in questo sontuoso film targato Netflix (è su quella piattaforma che lo si può vedere), ricostruisce l’esperienza creativa di Mankiewicz (interpretato magistralmente da Gary Oldman) presentandolo come un intellettuale prestato al cinema, ricco di contraddizioni, idealista disilluso, fedele alla moglie ma anche alla bottiglia. Il film ce lo mostra impegnato a scrivere finalmente un’opera degna del suo talento, con un folle Welles che ogni tanto irrompe nel cottage dove Mank si è ritirato a lavorare (e a bere), ma con continui flashback che restituiscono le tappe della sua vita professionale, tra tycoons del calibro di Louis B. Mayer (quello della m.g.m.) e Irving Thalberg (l’executive cui si ispirò Francis Scott Fitzgerald per il suo Gli ultimi fuochi), e personaggi come William Randolph Hearst (il potente editore) e sua moglie Marion Davis (ex diva del muto).

Quest’ultima coppia, richiusa nella tenuta-castello di San Simeon in California, sembra essere il modello ispiratore per i personaggi di Kane e della seconda moglie Susan Alexander, motivo per cui all’epoca dell’uscita di Quarto potere Hearst cercò di comprarne i diritti per distruggerlo. Il perché di questa specie di vendetta da parte di Mank, loro amico, è l’argomento di Mank.

Certo si tratta di uno di quei film che fanno felici i cinefili, pronti a riconoscere i personaggi più o meno noti anche prima che siano rivelati; ma il dietro le quinte della macchina dei sogni ha sempre avuto un suo fascino per tutti, soprattutto quando si tratta di alzare qualche velo che solitamente ricopre e abbellisce la vita delle star. Per rendere la storia più universale, Fincher è ricorso al tradizionale schema dei film biografici: si rende il protagonista vittima degli eventi, così da permettere agli spettatori di immedesimarsi emotivamente nelle sue vicende. Il fatto, poi, che nell’ultima scena noi vediamo il volto di Gary Oldman trasformarsi in quello del vero Mankiewicz in una fotografia d’archivio è purtroppo il “trucchetto” usato in questi casi per estendere veridicità a tutto ciò a cui abbiamo assistito. E che magari è anche frutto di fantasia.

Il merito maggiore di Mank risiede nella confezione impeccabile: la fotografia in b/n di Erik Messerschmidt ci restituisce tutto il fascino argentato delle pellicole di allora, mentre la scenografia di Donald Graham Burt ricostruisce gli ambienti glamour delle feste, dello sfarzo, degli studios della Hollywood-Babilonia. Oldman spadroneggia da mattatore sul resto del cast: non è difficile pronosticare almeno per loro tre delle candidature ai prossimi Oscar.

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