“AVATAR, LA VIA DELL’ACQUA, Cameron, Pandora e il futuro del cinema
Di Giacomo Mininni
Di film come Avatar – La via dell’acqua è bene parlare, indipendentemente da quanto sia piaciuto o meno (risposta per chi scrive: molto poco). Non si può ignorare, infatti, che in un periodo di forte crisi del settore cinematografico, con sale sempre vuote o quasi, con i maggiori studi di produzione ormai trasferitisi in pianta più o meno stabile sulle piattaforme streaming, James Cameron sia riuscito a incassare più di un miliardo e settecento milioni di dollari, una cifra in crescita. Le sale sono di nuovo piene, e a buon ragione: bello o meno, questo secondo «Avatar» ha ridefinito cosa è possibile fare
al/col cinema.
Il film si può leggere sotto due aspetti, quello «classico», narrativo e contenutistico, e quello meramente tecnico. Sotto il primo punto di vista, la pochezza è sconcertante: gli umani sono tornati sul pianeta Pandora per depredarne le risorse e hanno messo su una task force per uccidere il traditore Jake Sully, che ora è sposato e ha quattro figli. Jake e famiglia fuggono sul mare, dove vengono accolti dalla tribù dei Metkayna, ma i cattivi li troveranno anche qui e sarà battaglia. Basta, nient’altro: personaggi tagliati con l’accetta, approfondimenti psicologici inesistenti, un tribalismo xenofobo di fondo assurto a valore da proteggere, una storia minimale stiracchiata su oltre tre ore di durata, metafore banali e pacchiane.
C’è però il secondo aspetto da considerare, e qui il film è un capolavoro senza se e senza ma. La perfezione tecnica raggiunta dalle ricostruzioni in CGI del mondo alieno tolgono il fiato, il 3D ambientale trasporta lo spettatore letteralmente dentro allo schermo, la definizione dell’immagine è senza precedenti, e Cameron riesce a domare perfino i famigerati Fps, i frame al secondo che aumentati oltre una certa soglia fanno normalmente sembrare comicamente accelerati i movimenti e le immagini «talmente reali da sembrare finte».
Cameron, però, è uno che il cinema lo sa fare, e che ha già dimostrato più volte di sapere accompagnare effetti speciali rivoluzionari a una trama solida e a personaggi ben costruiti: «Terminator 2 – Il giorno del giudizio» ha praticamente inventato la computer grafica al cinema, ma l’epica del robot-Pinocchio che impara a diventare umano è appassionante e ben costruita; «Titanic» regala una ricostruzione mozzafiato dell’affondamento dello storico transatlantico, ma ci costruisce intorno un bel mélo con una storia di amore impossibile tra classi sociali diverse. Con Avatar, evidentemente, a Cameron l’aspetto narrativo del cinema non interessa più: non è per incapacità o pigrizia che si trascura il racconto, la costruzione dei personaggi, la complessità della trama e delle allegorie, ma per scelta consapevole. In un mondo di video di pochi secondi visti in rapida sequenza sul cellulare, sembra dire Cameron, il pubblico non ha più attenzione da prestare a grandi storie e grandi riflessioni: per salvarsi, il cinema ha bisogno di tornare all’effetto meraviglia degli esordi, quando era ancora un’attrazione da fiera che spaventava gli astanti con la ripresa di una locomotiva in arrivo alla stazione che pareva sfondare lo schermo. Non arte, quindi, ma tecnica, non racconto ma effetti speciali, non epica fantascientifica ma documentario su un pianeta alieno che lasci a bocca aperta e non dia modo di pensare. Sarebbe un peccato se il cinema diventasse davvero quel che Cameron teorizza, ma i numeri a oggi gli stanno dando ragione. E non è qualcosa che ci si possa permettere di ignorare.
AVATAR – LA VIA DELL’ACQUA di James Cameron. Con Sam Worthington, Britain Dalton, Sigourney Weaver, Stephen Lang. USA, 2022. Fantascienza.
Fonte: Toscana Oggi, edizione del 21/01/2023