Thriller e più ancora noir per comporre un quadro dichiaratamente kafkiano.
L’inizio di “The Counselor”, basato su una sceneggiatura originale di Cormac McCarthy, lo scrittore premio Pulitzer, è rivelatore: prima un uomo e una donna molto innamorati che si scambiano effusioni tra le lenzuola, poi un altro uomo e un’altra donna intenti nel deserto messicano ad osservare una coppia di leopardi (di loro proprietà) che inseguono velocissimi conigli. A seguire una visita in carcere, un incontro d’affari non meglio specificati e un flash su alcuni affiliati a una banda di narcotrafficanti. McCarthy non è un autore di thriller, anche se talvolta ne utilizza atmosfere e situazioni. E’ piuttosto un analista umano e sociale che non conosce ottimismo e ama più di ogni altra cosa la scrittura simbolica e metaforica. E il film di Ridley Scott non ha alcuna intenzione di entrare nel dettaglio dell’intreccio, tanto è vero che si arriva a metà racconto senza avere la più pallida idea del chi, del come e del perché. Salvo una motivazione che è di McCarthy e che appare chiara fin dal principio: il destino, visto non come concetto astratto ma piuttosto come attore principale e naturalmente invisibile, sta preparando un punto d’arrivo per tutti. Per la maggioranza di loro sarà un punto di non ritorno.
L’avvocato, del quale non sapremo mai il nome, entra in affari con Reiner, affiliato alla malavita. Quali affari siano non è dato saperlo, ma di certo sono collegati al traffico della droga. Quando il carico atteso viene rubato e l’unica identità certa è quella di un uomo che l’avvocato ha fatto uscire dal carcere, scatta un meccanismo ineluttabile che nessuno è in grado di fermare.
Certo, l’idea di utilizzare il thriller e più ancora il noir per comporre un quadro dichiaratamente kafkiano dell’esistenza risulta interessante. Scott, per una volta lontano da kolossal pseudo-storici, sembra ritrovare il gusto dell’immagine pura e, evidentemente stimolato da un testo non banale, dell’analisi esistenziale. Tuttavia alcune scelte sembrano discutibili. Ad esempio la necessità di avere un cast di tutte stelle che comprende Michael Fassbender, Penelope Cruz, Brad Pitt, Javier Bardem e Cameron Diaz può creare aspettative che le atmosfere rarefatte e spesso surreali del film disattendono. Ci si chiede anzi se qualche nome meno altisonante non avrebbe giovato di più al tipo di racconto e se le star non servano soltanto a favorire qualche beneficio pubblicitario e comunque ad allargare a dismisura il mercato del film, che forse avrebbe dovuto assomigliare più a “Detour” o “L’infernale Quinlan” e meno a “The Mexican”. Un film che, pure, sa essere spiazzante e originale fino al momento in cui non si insinua nello spettatore la certezza che non vi saranno spiegazioni e di conseguenza una sorta di assuefazione all’ineluttabilità che finisce per nuocere al ritmo e all’attenzione. Certo, a Scott non si insegna a fare cinema. Tra scenari naturali e urbani sapientemente alternati, con una capacità di trascendere il reale che predispone alla presa d’atto della prevalenza dell’assurdo, persino con una citazione felliniana quando un filo d’acciaio teso per la strada taglia di netto la testa a un motociclista (accadeva a Terence Stamp nell’episodio “Toby Dammit” in “Tre passi nel delirio”), “The Counselor” è un film dal notevole potenziale, ma che avrebbe tratto maggior giovamento da una narrazione più asciutta ed essenziale, soprattutto non resa ambigua e tutto sommato irrisolta da un autore troppo avvezzo alle grandi produzioni per poter di punto in bianco scendere di nuovo tra la gente comune. Posto che il personaggio più inquietante è quello che determina i destini di tutti e che non vedremo mai, quello più kafkiano è indubbiamente l’avvocato di Fassbender, l’unico a non avere un nome. Neanche una K. Perché non è Kafka chiunque lo voglia.