Il seminarista
di Gabriele Cecconi. Con Filippo Massellucci, Andrea Pelagalli, Gianluigi Tosto, Francesco Tasselli, Giorgio De Giorgi, Emanuele Biagi. ITALIA 2012; Drammatico; Bianco e nero/Colore
Inizialmente si doveva intitolare “Oltre il cancello”, che è anche il titolo del romanzo che il pratese Gabriele Cecconi ha scritto sulla base della sceneggiatura originale. Poi, vent’anni dopo, è diventato “Il seminarista”, un film diretto dallo stesso Cecconi che, dimostrando in questo una scelta originale e anche coraggiosa, ha voluto ambientarlo interamente all’interno di un seminario di Prato per raccontare la storia di tre bambini dalla diversa vocazione che, dalla fine degli anni Cinquanta alla metà dei Sessanta, affrontano la difficile strada del sacerdozio. Siccome è evidente che alcune delle vicende narrate da Cecconi derivano da informazioni di prima mano, bisogna concludere che vivere le cose o anche soltanto ricordarle è cosa assai diversa dal metterle in scena. Senza che l’autore dia mai fino in fondo l’impressione di una critica preconcetta, l’impressione che si trae dal film è quella di un accumulo di episodi pubblici (la vicenda di don Milani) e privati (le esperienze dei ragazzi) che dovrebbero condurci alla conclusione che forse le regole imposte dalla Chiesa per accedere al sacerdozio sono troppo dure e, in un certo senso, disumane. Potremmo rispondere che il discriminante fondamentale sta nel significato che vogliamo dare alla parola “vocazione”. Una vocazione autentica sarà comunque assalita dai dubbi, ma finirà per non vacillare. Una vocazione presunta o debole si arresterà prima o poi davanti a qualche ostacolo ritenuto insormontabile.
Non è da trascurare il fatto che all’interno del seminario in cui entra, convinto della propria vocazione, Guido, il rettore è quasi costantemente assente, il padre spirituale blandisce con una sorta di familiarità e poi minaccia inferno e dannazione eterna, il prefetto Tiberi è glaciale, svelto di mano ben oltre il consentito e (sapremo poi) di dubbia moralità. Si parla molto di divieti e prescrizioni e pochissimo di amore, si cita Gesù quasi esclusivamente in ragione dei chiodi e delle piaghe. Fatale la destinazione dei tre ragazzi: Giuliani, il più buono e mite, morirà per una cardiopatia; il pugliese, figlio di ragazza madre, sarà espulso e finirà nel giro della droga; Guido, che si è anche innamorato di una ragazza vista in chiesa, semplicemente se ne andrà diventando professore di storia e filosofia.
Tecnicamente “Il seminarista” opta per un bianco e nero che, contrapposto ai colori del presente, dà l’idea di un universo chiuso e antiquato nel quale sembra che il tempo non scorra affatto. Non è un caso se sono le locandine dei film affisse all’esterno del cinema Politeama a far misurare l’avanzare degli anni. “Ben Hur” indica il 1959. “La dolce vita” il 1960. “Universo proibito” il 1963. Dentro il seminario, però, si affermano verità assolute e incontestabili, come ad esempio che il matrimonio sia un sacramento minore rispetto all’ordinazione o che sia assurdo desiderare il corpo di una donna che presto o tardi finirà come tutti in decomposizione, che un discreto teologo in un caso e un buon psicologo nell’altro potrebbero facilmente contestare. Cecconi sembra seriamente convinto che il sacerdozio sia una sorta di prigione innaturale. A nostro modo di vedere, sarebbe bastato affermare a chiare lettere che ogni uomo ha una vocazione (chi al sacerdozio, chi all’insegnamento, chi alla vita familiare e via discorrendo) che dovrebbe seguire con fermezza e ci saremmo risparmiati tanti luoghi comuni in bella calligrafia. Perché, certo, Cecconi ha un buon senso dell’immagine ed è in grado di costruire scene altamente drammatiche e toccanti. Gli manca invece quel che manca a quasi tutti quelli (compreso Nanni Moretti) che affrontano da osservatori esterni le procedure interne alla Chiesa: una obiettività che renderebbe necessaria l’introduzione di elementi di confronto di modo che ognuno possa trarre liberamente conclusioni personali e non unilaterali.
Francesco Mininni