“INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO”, gli eroi non vanno in pensione
di Giacomo Mininni
Per definizione, gli eroi sono fuori dal tempo: James Bond continua a fare la spia decenni dopo la fine della Guerra Fredda, Maggie rimane una neonata a trentaquattro anni dal primo episodio de «I Simpson», Batman continua a combattere il crimine a Gotham City col fisico di un aitante trentenne anche se la sua prima apparizione risale al 1939.
Indiana Jones è invece uno dei rari casi in cui il tempo, il personaggio, lo sente bene: introdotto da Spielberg e Lucas ne «I predatori dell’arca perduta» del 1981, l’archeologo più famoso del cinema ha sempre avuto sul grande schermo il volto di Harrison Ford, combattendo i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e ricomparendo sulla sessantina durante la Guerra Fredda nel bruttino «Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo» del 2008.
Il quinto capitolo della saga vuole, almeno su carta, essere l’ultimo, e non a caso la regia de Indiana Jones e il quadrante del destino è affidata a James Mangold, che aveva già dato prova di saper raccontare un eroe al tramonto con l’interessante «Logan», ultima avventura dello Wolverine di Hugh Jackman. Il primo Indy che ritroviamo è quello di un lungo flashback che fa da introduzione, con Ford ringiovanito (male) dai soliti effetti digitali durante gli ultimi giorni della guerra. Lo ritroviamo poi quarant’anni dopo, invecchiato, acciaccato, divorziato e solo, un burbero vecchio che grida ai giovani vicini per il volume della musica e che si prepara al pensionamento dopo anni di insegnamento universitario.
Ford, come anche gli altri veterani John RhysDavies e Karen Allen, mostrano con orgoglio le rughe e i fisici provati dall’età, e Mangold non a caso imposta l’intero film sul tempo, sul valore del suo scorrere e, pure nel contesto di un’avventura pulp con tanto di magica macchina del tempo, sulla sua irreversibilità.
C’è molto che non funziona nel film di Mangold, a partire dai nuovi comprimari (Phoebe Waller-Bridge si gioca con Shia LaBeouf il primato di coprotagonista più antipatico dell’intera saga), ma il nucleo tematico del film sa mantenersi saldo su una prospettiva piacevolmente malinconica e crepuscolare. Tutto ciò che c’è di veramente riuscito ed emozionante nel film non è tanto negli inseguimenti, pure divertenti, o in un’ inventiva battaglia tra nazisti e antichi romani, quanto in un eroe del passato che si mostra com’è oggi e tenta comunque di crescere oltre se stesso: un vecchio solo e triste che si rifugia (letteralmente) nel passato per fuggire il vuoto che lo attende nel presente.
Su questa dimensione umanissima e inaspettatamente vulnerabile Mangold forse, Ford sicuramente mettono la parola «fine» su uno degli eroi più iconici di una «nuova Hollywood» che ormai è già vecchia («classica») e oggetto di nostalgia, spesso intransigente, da parte di migliaia di fan. Accompagnato ancora una volta dall’inseparabile fedora, da una frusta che ormai non serve più a granché e dalle brillanti musiche di John Williams, Indiana Jones affronta non tanto il nazista recidivo di Mads Mikkelsen, quanto piuttosto l’unico avversario che non può battere: il tempo che passa. E nel modo che troverà per farci pace sta tutta la compiutezza di un arco narrativo cominciato più di quarant’anni fa.
INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO di James Mangold. Con Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Ethann Isidore, Mads Mikkelsen. USA, 2023. Fantastico
Fonte: Toscana Oggi, edizione del 09/07/2023