“LA DONNA DEL FIUME” la pellicola che visse due volte
recensione a cura di Giacomo Mininni
Nel 2000, il regista Lou Ye osò presentare la sua terza pellicola da regista all’International Film Festival di Rotterdam senza la diretta autorizzazione del Partito comunista cinese, subendo di conseguenza il sequestro del film per quasi vent’anni e una forzata sospensione del lavoro fino al 2003. Il film in questione era La donna del fiume – Suzhou River, una storia solo apparentemente «innocua», in realtà un guanto di sfida quasi rivoluzionario.
Il fiume del titolo è il Suzhou che attraversa Shanghai, lungo il quale si svolgono due bizzarre storie d’amore. La prima è tra un anonimo fotografo, il narratore, e una ballerina di nightclub, Meimei, che si guadagna da vivere vestita da sirena. La seconda è quella tra Mardar, un corriere che ha lavorato per la criminalità organizzata, e Moudan, ragazza che ha rapito per lavoro e di cui si è innamorato: prima di sparire tra i flutti del Suzhou fuggendo dal rapitore, Moudan aveva promesso a Mardar che sarebbe tornata sotto forma di sirena, e ora l’uomo riconosce in Meimei l’amore perduto.
In Occidente, La donna del fiume ha riscosso un grande successo soprattutto per la sua estetica, semplice e iperdinamica, in parte ispirata al collega di Hong Kong Wong Karwai e al suo Hong Kong Express, e per la sua tragica poetica di fondo, che omaggia a piene mani il cinema di Alfred Hitchcock in modo particolare La donna che visse due volte, con la protagonista Zhou Xun divisa nel doppio ruolo di Moudan e Meimei, oggetto dell’attenzione ossessiva di due amanti.
Quello che però più colpisce del film, per molti versi ancora acerbo sul piano stilistico, è il potente messaggio politico, che scorre sotterraneo alla trama con la stessa forza del Suzhou. Zhang Ming Fang è il protagonista e il narratore, anonimo in modo che chiunque possa identificarvisi, attore e spettatore che forza la prospettiva de pubblico nella propria grazie alle riprese i soggettiva realizzate con camera a mano, con effetti quasi amatoriali.
Mentre la romantica storia d’amore tra Mardar e Moudan travalica nel fiabesco, con un amore eterno che sfida il tempo e perfino la morte, la ballerina Meimei rimane affascinata dalla purezza e dalla determinazione dei sentimenti dell’ex corriere e comincia a desiderare per sé il tipo di amore che lui riserva all’amata perduta. In tutto questo, il cinico fotografo fa qualcosa che agli altri personaggi è precluso: mente. Il protagonista giura amore eterno a Meimei, ma è pronto a dimenticarla e passare oltre il momento stesso in cui questa scompare e lo sfida a mantenere la parola data, rimarcando come una storia come quella di Mardar e Moudan «esista solo nei film». Nel suo tracciare un confine netto tra «al di qua» e «al di là» dello schermo, Lou Ye compie un atto considerato (correttamente) sovversivo da parte del regime: a fronte della pretesa oggettività di cinegiornali, trasmissioni televisive, comunicazioni politiche, ricostruzioni storiche, il regista osa affermare che «lo schermo mente», che il mondo che si vede proiettato, non importa se con tecniche realistiche e con pretese di verità, è un mondo di consolanti bugie, di poetiche finzioni, radicalmente diverso da uno più duro, più crudo, ma reale, che vive solo «al di qua» dello schermo, dalla prospettiva cioè del narratore che non a caso esiste solo in soggettiva.
Più che un semplice mélo dal sapore hitchcockiano e dai toni vagamente noir, allora, La donna del fiume è un guanto di sfida lanciato a un governo repressivo, a una censura onnipervasiva, a un preteso controllo sulla realtà manipolata da una «verità ufficiale» che raramente corrisponde alla tanto declamata oggettività dei fatti. Un film rivoluzionario, da riscoprire.
LA DONNA DEL FIUME – SUZHOU RIVER di Lou Ye. Con Zhou Xun, Jia Hongsheng, Zhang Ming Fang, Nai An. Cina, Germania, Francia, 2000. Drammatico.
Fonte: Toscana Oggi, edizione del 31/07/2022