“L’ESORCISTA”, a cinquant’anni dalla sua uscita cosa abbiamo capito del male?
di Marco Vanelli
A differenza di quanto si crede, il punto di forza dell’Esorcista non è il tema della possessione demoniaca o le scene dedicate al rito di liberazione, bensì tutto il contorno di normalità dei personaggi che hanno a che fare con Regan, la ragazzina al centro della vicenda. Ognuno di loro possiede un vissuto, una dimensione umana che dà sostanza alla narrazione e rende credibile anche ciò che non lo è. A cominciare dalla trama, che è assai lacunosa e bizzarra. Nel prologo un prete anziano, padre Merrin, partecipa a degli scavi archeologici in Iraq, in un tempio pre-islamico, dove scova una statuetta raffigurante il demone Pazuzu e una medaglietta con su effigiato san Giuseppe. Da quel momento egli capisce che qualcosa di grave sta per succedere, quasi che lo spirito maligno si sia liberato per aver fatto riaffiorare quel reperto di pietra. Come questo, che nell’incipit è in mano al prete, finisca dall’altra parte del mondo, nello stato di Washington D.C., fuori della casa di Regan, nessuno lo spiega, tanto meno come mai la medaglietta si ritrovi poi al collo del prete giovane, padre Karras. Il ritmo narrativo costruito in crescendo non dà tempo allo spettatore di porsi delle domande. In compenso ciò che si comprende assai bene sono i caratteri: Regan è in età puberale e all’inizio la sentiamo pronunciare timide battute riguardanti la sfera affettivo-sessuale; sua madre è un’attrice famosa, separata dal marito, non credente, che impreca di continuo (in inglese di fatto bestemmia); gli anziani domestici tedeschi hanno forse un trascorso nazista; padre Karras che per primo viene consultato non è certo un esempio di fede e ha il senso di colpa per aver lasciato morire sua madre in un ospizio; padre Merrin sente la responsabilità di aver scoperchiato “il vaso di Pandora”…
Di fatto la ragazza diventa specchio per ognuno di loro; cosicché la mamma dal linguaggio volgare sente dalla figlia pre-adolescente parole ben più atroci e assiste alla perdita della sua verginità in modo blasfemo; il prete giovane rivede e sente sua madre nella camera di Regan, come se il demone leggesse nella sua cattiva coscienza; il prete anziano assiste alla materializzazione del suo nemico in pietra, controluce, quasi che tutta la questione fosse per lui una resa dei conti nello stile di Indiana Jones.
In definitiva il film non ci parla di Satana come non ci parla di Dio, non presenta nessun valore metafisico e trasforma la possessione (una realtà seria, testimoniata anche nel Vangelo) in un fenomeno da baraccone (tutta la seconda parte è un susseguirsi di scene impressionanti ormai divenute proverbiali: vomito verde, testa che ruota, voce gutturale…). Ma il solo esorcismo che viene praticato è una specie di psicanalisi collettiva che fa emergere “l’inferno” dei personaggi di contorno. A Regan, una bambolina sulle soglie dell’adolescenza (e a chi si può ruotare la testa di 360° se non alle bambole?), si rivela un mondo adulto fallimentare, una società senza più la sicurezza illuministica nella scienza («Se ci crede, si rivolga a un esorcista…», dicono alla madre i medici sconfitti) né la sicurezza della fede (l’esorcismo si risolve in una resa di conti personale, a sganassoni: più che Cristo, a vincere Pazuzu sembra essere il centauro Chirone: «Entra in me…»).
Cos’è che manca in tutto questo pandemonio? Il “principio di realtà”, rappresentato dal detective Kinderman, colui che indaga sui fatti senza mai entrare direttamente in contatto con l’indemoniata (ma è lui che trova la statuetta per strada). È sintomatico infatti che egli entri nella casa di Regan proprio nel momento in cui tutto si placa. La realtà e il suo principio fanno paura, più del diavolo: si veda come appare illuminato il volto di Kinderman alla madre che apre uno spiraglio della porta. Eppure è solo in quel modo, accogliendo il mondo esterno nell’inferno domestico, che le cose possono riequilibrarsi.
E a proposito di paura, c’è anche quella dello spettatore. Per l’argomento in sé? No, per lo sguardo di Regan che non ha più nulla di umano e, contravvenendo alle regole consolidate, si rivolge all’obiettivo, cosicché inconsciamente chi guarda il film si sente guardato negli occhi, come se fosse abbattuta la “quarta parete”. Quello sguardo da Medusa è insostenibile, e chi vi assiste se lo porta dentro, conservando un effetto perturbante dovuto alla confusione tra finzione e realtà.
Date retta, l’unico che ha capito come funziona è il detective cinefilo: è tutto cinema (di qualità, ma è cinema)! Il demonio abita altrove.
L’ESORCISTA (The Exorcist)
Regia: William Friedkin; sceneggiatura: William Peter Blatty dal suo romanzo; fotografia (colore): Owen Roizman; musica: Mike Oldfield; interpreti: Linda Blair, Ellen Burstyn, Jason Miller, Max von Sydow, Lee J. Cobb; produzione: Warner Bros., origine: Usa, 1973; formato: 1,85:1; durata: 121 min.