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“LETTERA A FRANCO” , un’accurata ricostruzione di un momento storico davvero cruciale 

 recensione a cura di Marco Vanelli

Spagna, luglio 1936. Nell’esercito alcuni generali nazionalisti fanno un colpo di stato per riportare ordine nella Seconda Repubblica. Tra questi Francisco Franco, in apparenza un bonaccione. Ad appoggiare il golpe è Miguel de Unamuno, grandissimo scrittore spagnolo, rettore dell’Università di Salamanca. Egli vive da anziano con le due figlie e un nipotino, trascorrendo i momenti liberi in amabili conversazioni con gli amici Atitliano Coco, un pastore protestante, e Salvador Vila Hernández, un socialista.
Il film racconta la progressiva ascesa di Franco al ruolo di caudillo, cioè di detentore unico del potere militare e politico – privilegio che, nelle intenzioni dei golpisti, avrebbe dovuto durare solo alla fine della guerra civile (da qui il titolo originale), ma che in realtà durerà fino alla sua morte –, e al contempo la progressiva discesa di Unamuno da perseguitato politico, ai tempi della dittatura di Primo de Rivera, a ingenuo sostenitore dei falangisti a sostegno dei quali firma un manifesto.
Franco incarna la celebre definizione di «banalità del Male»: un uomo senza qualità, senza l’aura del leader né le convinzioni del fratello Nicolás o dell’esagitato José Millán-Astray (suo lo slogan «Viva la muerte!»); ma il futuro caudillo è determinato, calcolatore, intuitivo: sa sfruttare l’appoggio dei nazisti, capisce che gli conviene restaurare la monarchia e comprende, proprio grazie a una citazione di Unamuno, il vantaggio che può trarre dal farsi paladino dei valori tradizionali cattolici della Spagna.
Il grande intellettuale, invece, sembra non accorgersi dell’orrore che sta materializzandosi intorno a lui, a cominciare dalla sparizione dei suoi amici, del sindaco di Salamanca, di García Lorca, e della deriva fascista del generalissimo Franco. Di Unamuno assistiamo anche a un momento di delirio in cui lo scrittore si sdoppia: il sé stesso con gli occhiali (leggi: l’intellettuale) dal letto vede il sé stesso senza occhiali (leggi: l’essere umano) rivolgersi a un crocifisso con aria minacciosa ma senza proferir parola. Le parole le possiamo trovare nella sua multiforme opera: devote nell’ispirato poema Il Cristo di Velásquez (1920); disperate e nichiliste nel racconto San Manuel Bueno, martire (1930).
Ma, cristianamente, se c’è una caduta c’è sempre la possibilità di una redenzione, che per Unamuno avviene proprio nella sede della sua Università, di fronte ai fascisti schierati per celebrare la giornata della razza. Fino ad allora abbiamo sentito il professore lamentarsi della cattiva qualità della lingua usata dai giornalisti e dai militari, come a spostare l’attenzione dal contenuto alla forma; all’improvviso quella stessa lingua lo porterà a riabilitarsi prendendo a rischio della vita una posizione coraggiosa e inequivocabile: «Conquisterete, ma non convertirete; vincerete, perché avete forza bruta in abbondanza, ma non convincerete». Pochi mesi dopo quel discorso, morirà. Alejandro Amenábar si dimostra un abile regista, senza particolari vette creative, capace però di sintetizzare il dramma umano e storico che allora ha spaccato la Spagna attraverso il rovello di un intellettuale contraddittorio ma fedele alla propria libertà di pensiero e la cinica determinazione di un dittatore pronto ad annientare gli oppositori. Purtroppo, assistere a un simile conflitto tra chi sfrutta il Cristianesimo per santificare la propria sete di potere e chi, sul fronte opposto, pur avendo fatto sbagli, è stato represso nel sangue, beh, ci spinge inevitabilmente a fare tristi paragoni con l’attualità.

LETTERA A FRANCO (t.o.: Mientras dure la guerra); regia: Alejandro Amenábar; sceneggiatura: A. Amenábar e Alejandro Hernández; fotografia (colore): Alex Catalán; musica: A. Amenábar; interpreti: Karra Elejalde, Eduard Fernández, Santi Prego, Luis Zahera, Carlos Serrano-Clark; formato: 2,39:1; origine: Spagna-Argentina 2019; durata: 107 min.

Fonte: Toscana Oggi, edizione del 12/06/2022

 

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