“NIDO DI VIPERE”, quando i soldi non fanno la felicità
recensione a cura di Giacomo Mininni
Per il proprio esordio, Kim Yong-hoon si è trovato davanti un’impresa non da poco: da un lato, adattare un romanzo popolare in Estremo Oriente come il giapponese «Bestie che si aggrappano alla paglia» di Keisuke Sone, un noir vagamente tarantiniano con diverse storie che si sovrappongono e si incrociano; dall’altro un anno impegnativo come il 2020, con gli occhi del mondo puntati sulle produzioni coreane dopo la vittoria di Parasite agli Oscar. Nonostante le chiare difficoltà, però, Kim riesce brillantemente nell’impresa, e Nido di vipere si presenta come uno dei film di genere più interessanti degli ultimi anni.
Le storie principali sono tre, tutte accomunate dal passaggio di mano di una borsa Louis Vuitton piena di contanti, tutte ambientate nella città portuale e frontaliera di Pyeongtaek. C’è Joong-man, diventato impiegato di un centro termale dopo aver chiuso il ristorante di famiglia, bistrattato dal capo, perennemente senza soldi, con una figlia che non può mandare all’università e una madre con demenza senile che non può mettere in istituto. C’è poi Tae young, un doganiere che ha contratto un importante debito col boss della mala Mr. Park, e che tenta la via della rapina per ripagarlo. C’è infine Mi-ran, giovane donna picchiata e abusata da un marito alcolizzato, che lavora come escort per pagare un grosso debito del consorte.
Nonostante la tipologia di eventi che vedono protagonisti questi personaggi e quelli che gravitano attorno a loro, Kim Yong-hoon mette subito in chiaro come i tre siano mossi più dalla disperazione che dalla malizia, e che il vero punto di contatto fra di loro sia un disperato bisogno di denaro, assicurazione di un futuro più facile o semplicemente possibile in contrapposizione a un presente duro, cupo, spietato. Con un’abbondante dose di black humor, il film racconta le tre vicende su piani paralleli, ingarbugliando i piani temporali con una narrazione non diacronica tesa ad aumentare l’effetto sorpresa al momento della conclusione delle varie sottotrame, risolte brillantemente con soluzioni di graffiante ironia. In questo senso, è un montaggio in stile «Pulp Fiction» a farla da protagonista, con i vari personaggi mischiati sul tavolo come nel gioco delle tre carte per distrarre e confondere lo spettatore fino alla soluzione finale.
Più che a Tarantino, però, Kim guarda al «Fargo» dei fratelli Coen e al «Soldi sporchi» di Sam Raimi, strutturando la propria storia come una tragicommedia di esistenze semplici stravolte e distrutte dalla prospettiva di un facile guadagno, di una veloce svolta rappresentata, prima ancora che dal contenuto della borsa, dal marchio al suo esterno. Luis Vuitton non è solo un brand, ma è l’incarnazione dello status sociale alla cui ricerca molti dedicano la propria intera vita, specie in una società frenetica, efficientista e quasi darwinista come quella sudcoreana.
In un meccanismo a orologeria che non si inceppa mai, Nido di vipere racconta di una comunità disgregata da doppi giochi e tradimenti, dalle ambizioni e dalla meschinità di «mostri» resi tali da una marginalizzazione sociale senza appello e senza scampo. Sardonico e provocatorio, il film conduce a un’inevitabile iperbole di violenza in cui perfino la morte non è che l’ultima beffa giocata da un destino dal senso dell’umorismo malato, in punte di sadismo esistenziale mai gratuite e sempre caratterizzate da una brillante e malinconica intelligenza.
Una piacevolissima sorpresa, un esordiente da tenere d’occhio.
NIDO DI VIPERE di Kim Yong-hoon. Con Bae Seong-woo, Jung Woo-sung, Shin Hyunbeen, Jeon Do-yeon. Corea del Sud, 2020. Thriller.
Fonte: Toscana Oggi, edizione del 02/10/2022