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“SANTA LUCIA” Pur intrisa di rimandi letterari, la pellicola si rivela un ottimo esempio di come si possa ancora fare del «vero cinema»

recensione a cura di Marco Vanelli

Di questa sorprendente opera prima, diciamo subito qual è il limite maggiore, cioè un eccesso di letterarietà nell’impostazione strutturale e nei dialoghi. Riaffiorano le intermittenze del cuore di Proust e non mancano gli omaggi palesi a Borges o a Garcia Marquez. Ma se assistendo al film questi possono sembrare difetti, a visione completa tutto risulta ampiamente riassorbito nel racconto che, a dispetto di lunghe parentesi parlate, ha il suo punto di forza nell’uso del linguaggio visivo puro, come capita raramente di trovare nel cinema contemporaneo.
Santa Lucia è un quartiere di Napoli, oltre che la protettrice degli occhi e anche il nome di una certa pietra che si salda alle conchiglie divenendo una sorta di amuleto per la vista. Tutti questi elementi permeano la vicenda di Roberto, un anziano scrittore che da quarant’anni vive in Argentina. Diventato cieco, si decide a tornare a Napoli solo in occasione della morte della madre: sarà un modo per fare i conti con il passato. Un passato che riguarda i suoi affetti più intimi: la mamma ma anche Lorenzo, il fratello meno determinato di lui, poco incline alla cultura, serafico nella sua accidia partenopea. Questi non ha letto nessun romanzo di Roberto e se ne fa raccontare uno, una tipica parabola alla Borges con una città-labirinto e un ragazzino desideroso di prendere il mare per intraprendere una vita avventurosa, impedito però da una sorta di destino beffardo.
Ecco, in un momento come questo assistiamo alla felicità creativa del giovane regista che non si limita a far sentire la narrazione dalla voce di Roberto (un intenso Renato Carpentieri), ma la accompagna con delle immagini descrittive, rapide, montate sapientemente, del quartiere napoletano con i suoi vicoli labirintici, che diventano al tempo stesso la traduzione visiva di quelle parole ma anche la possibile fonte di ispirazione per lo scrittore. Lo schermo, cioè, assume una autonomia espressiva che potenzia il parlato e spesso ne fa a meno. Si pensi alle immagini astratte di colori e forme che cercano di emergere dal buio come splendida traduzione percettiva della cecità di Roberto; oppure al suo approccio tattile alla realtà familiare, compreso il viso del fratello o della madre, che per lui diventano quelli del ricordo, non certo del presente; o anche alla libertà della macchina da presa che esplora la casa che era stata il nido dei sentimenti ora dissepolti svelando intimità e segreti che solo la memoria emotiva può conservare. Esemplare è il piano sequenza circolare di quando Lorenzo (un altrettanto intenso Andrea Renzi) intona alla chitarra le note del Concerto d’Aranjuez e noi scopriamo gli oggetti polverosi della stanza incredibilmente ferma agli anni dell’infanzia e della giovinezza.
Il celebre incipit del romanzo L’età incerta di Hartley, «Il passato è un paese straniero» – tanto per tornare alla letteratura, ma anche al cinema: ne fu tratto il bel Messaggero d’amore di Losey – ben si adatta a questo film il cui protagonista, più che impossibilitato a vedere, sembra aver scelto deliberatamente di non guardare ciò che gli creava disagio e dolore, ma con cui finalmente, al termine del suo pellegrinaggio affettivo, della sua personale recherche, si può riconciliare. Santa Lucia è distribuito, per ora, in poche sale, ma merita un’attenzione speciale, come pure il suo autore che mostra un piglio registico raro e da cui aspettiamo altre prove ancor più convincenti.

SANTA LUCIA Regia e sceneggiatura: Marco Chiappetta; fotografia: Antonio Grambone; montaggio: Giogiò Franchini; interpreti: Renato Carpentieri, Andrea Renzi, Bianca Maria D’Amato; produzione: Teatri Uniti; formato:
1,85:1; origine: Italia, 2021; durata: 76 min.

Fonte: Toscana Oggi, edizione del 20/11/2022

 

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