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Una decisione che salvò la libertà di stampa
in un film che fa convivere verità e retorica

Dan Ellsberg, uomo del Pentagono inviato in Vietnam come osservatore, ebbe modo di sperimentare quanto grande fosse il dislivello tra pensiero e parola, ovvero tra opinioni private e opinione pubblica. Decise così di sottrarre i documenti noti come Pentagon Papers, nei quali si capiva chiaramente come l’esito della guerra fosse ben noto alle alte sfere molto prima della sua conclusione, e di divulgarli perché tutti sapessero. Ciò accadde sotto l’amministrazione Nixon, che usò tutti i mezzi per impedirlo osteggiando il New York Times fino alle aule di tribunale e cercando a tutti gli effetti di mettere un freno alla libertà di stampa. Ma, mentre il Times chinava il capo, il Washington Post andò avanti pubblicando integralmente i documenti. Così, grazie alla decisione della proprietaria Katharine Graham e alla tenacia del direttore Ben Bradlee, il popolo americano seppe e la Corte Suprema si pronunciò (6 voti contro 3) a favore della libertà di stampa. E mentre Nixon minacciava tuoni e fulmini contro il giornale, una perquisizione nell’Hotel Watergate portò alla luce un furto che avrebbe cambiato la Storia.

Ci potremmo chiedere se Steven Spielberg, quando si accosta alla Storia come ha fatto in L’impero del sole, Amistad, Il ponte delle spie e adesso in The Post, metta da parte la sua prepotente attitudine spettacolare o la sua vocazione di narratore di fiabe per trasformarsi in rigoroso analista. Ma sarebbe una domanda oziosa, forse persino impertinente, nella quale il diretto interessato potrebbe subodorare addirittura qualche trabocchetto. La verità è che Spielberg è un uomo di cinema dalle capacità quasi illimitate e gli sarebbe impossibile affrontare qualunque argomento senza vederlo dall’obiettivo della macchina da presa. Diversamente finirebbe per snaturarsi. E a noi piace così, con la sua retorica, i suoi colpi di scena studiati con cura, il suo grande magistero tecnico, la sua capacità narrativa. Spielberg è uno che, affrontando il tema della libertà di stampa sollevato da The Post, prende la macchina da presa, studia le inquadrature, crea le atmosfere e così, con incredibile naturalezza, ci fa tornare da spettatori ai grandi film sul giornalismo degli anni Cinquanta (ad esempio L’ultima minaccia di Richard Brooks) mescolando abilmente storia e melodramma, con due star per la prima volta insieme e uno stuolo di caratteristi dei quali non ci importa di ricordare il nome. È proprio il caso di dire “È Hollywood, baby”. Ma in questo caso è una Hollywood che, senza contravvenire alle regole dello show business, si preoccupa anche di una ricostruzione attendibile di un episodio che salvò la libertà di stampa e rese chiaro a tutti quanto la pratica della menzogna abitasse le stanze più alte del Potere. Che poi questa ricostruzione sia indirizzata a chi già conosce la storia e già conviene sulla necessità di rappresentarla, ma difficilmente possa far cambiare idea a chi la pensa diversamente, è una questione che si pone molto dopo la valutazione artistica di un film senza un attimo di pausa.

Presumere di insegnare a Steven Spielberg come si fa del cinema è sciocchezza pura. L’autore sa dove vuole andare e come fare per raggiungere l’obiettivo. Ad esempio, scegliere Tom Hanks per il ruolo del direttore e Meryl Streep per quello della proprietaria vuol dire mettersi al riparo da qualunque sorpresa. Lui è un americano ostinato nel quale non è difficile identificarsi, lei una donna forte ma piena di dubbi che emergono in ogni minima sfumatura. E mentre si guarda il film si partecipa del pathos crescente e, in un certo senso, ci si trova lì, in quelle stanze, a quei telefoni, in quei giorni nei quali si decise molto sul futuro della libertà. Ma vuol dire anche trovarsi in quel cinema classico e senza sbavature che ha fatta grande Hollywood anche al di fuori dei semplici canali dello spettacolo. E ci crediamo perché di tutto ciò che vediamo niente cade dall’alto: ogni passaggio è studiato in modo che la conseguenza degli eventi sia logica e plausibile senza Superman né eroi dell’ultima ora. Quel che è riuscito a Spielberg è esattamente fare del cinema (quindi finzione) con materiale storico (quindi verità) senza che le due componenti entrino mai in conflitto. Nessuno si stupisca se l’autore è in grado di passare dalla retorica arrembante di War Horse alla fiaba senza tempo de Il grande gigante gentile alla secca ricostruzione di The Post. Fa tutto parte del cinema.

di Francesco Mininni

THE POST (Id.) di Steven Spielberg. Con Tom Hanks, Meryl Streep, Sarah Paulson, Bob Odenkirk, Bruce Greenwood, Jesse Plemons. USA 2017; Storico; Colore

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