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Venere in pellicia

Venere in pelliccia

 

Dal romanzo di Leopold von Sacher-Masoch all’adattamento teatrale di David Ives al film di Roman Polanski, “Venere in pelliccia” ha quindi attraversato un percorso articolato e complesso per arrivare sullo schermo. Lo stesso percorso, articolato e complesso, del testo stesso, che non è scontato poter cogliere a una prima lettura e che si presta comunque a interpretazioni molteplici tutt’altro che intercambiabili. Quel che è certo è che Polanski lo ha scelto perché perfettamente congeniale alle proprie caratteristiche, al proprio virtuosismo e anche alle proprie manie. Non è un caso se, nella messa in scena, appaiono evidenti alcune autocitazioni (di volta in volta “Cul de sac”, “L’inquilino del terzo piano”, “Luna di fiele”) che equivalgono sia a un gioco sia a un’ammissione di affinità ed ispirazione. In fondo, qualunque sia l’interpretazione che della vicenda vorrà dare ogni singolo spettatore, quel che conta non è tanto il significato del testo ma il valore della rappresentazione. Così, dopo qualche episodio discutibile che denotava in Polanski un invecchiamento non soltanto anagrafico, l’autore ritrova un po’ della propria passione, del gusto per le situazioni estreme, dell’immagine di una realtà perennemente in equilibrio sul filo dell’assurdo e dell’imponderabile. “Venere in pelliccia” non è il capolavoro che qualcuno vorrebbe, ma contiene abbastanza elementi per essere considerato di interesse e degno di nota.

Thomas sta preparando una riduzione teatrale del testo di Sacher-Masoch ed è alla ricerca della giusta protagonista. Fuori orario si presenta Vanda (che incidentalmente è anche il nome della protagonista del dramma) che, nonostante le resistenze di un Thomas stanco e demotivato, lo convince a farle un provino. Appena entrata nei panni del personaggio, Vanda si trasforma e diventa il personaggio stesso. Thomas non può che assistere attonito e poi entrare nel dramma come personaggio maschile. Lo stupore diventa ossessione, i personaggi si scambiano di ruolo e l’artista potrebbe rimanere prigioniero di ciò che credeva di poter dominare.

Ridurre “Venere in pelliccia” a una rilettura dei rapporti di forza che regolano la convivenza di uomini e donne sembra estremamente riduttivo, anche se evidentemente è una componente presente. Il fatto però che tutto si svolga all’interno di un teatro deserto nel quale Thomas rimarrà imprigionato da un paio di manette e con le labbra marcate dal rossetto, estende lo studio dei rapporti di forza alla difficile convivenza dell’artista con l’opera d’arte e all’idea stessa di potere. Un potere che, naturalmente, appartiene alla donna la quale, secondo Sacher-Masoch, Ives e Polanski stesso, non è una creatura angelica, ma un vero e proprio archetipo della dea dominatrice. L’accostamento di Vanda a Venere prima e a una baccante poi, come a ripiombare un confronto attuale nel buio dei secoli andati, è in realtà la parte più debole del film, che trae più forza dal semplice confronto dialettico tra il regista e l’attrice dove l’illusione del primo di poter dominare il testo e tutto quanto attiene la rappresentazione si trasforma ben presto in una sudditanza che sposta radicalmente l’equilibrio delle forze. Per ottenere questo risultato, Polanski ha lavorato sugli attori, Mathieu Amalric ed Emmanuelle Seigner, catturando con la macchina da presa ogni sfumatura d’espressione e dimostrando come si possa ottenere il massimo da un (semplice?) gioco di campi e controcampi. Poi, è ovvio, c’è alla base un testo fatto di dialoghi avvolgenti e serratissimi, senza i quali nessuna macchina da presa al mondo avrebbe potuto averla vinta dentro un teatro deserto con due soli personaggi. Finché non cede al virtuosismo e all’autoreferenziale, “Venere in pelliccia” è prova di un talento ancora vitale e pulsante.

Francesco Mininni

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